Tra Scilla e Cariddi: la strada stretta della sinistra
“La libertà” scriveva Adorno “non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta”.
Una frase forse eccessivamente perentoria e astratta ma che riflette bene l’insoddisfazione che il dibattito attuale ispira in molte persone di sinistra. Se da una parte la rielezione di Napolitano e la formazione del governo Letta rappresenta una rinuncia a qualunque possibilità di proporre all’Italia e all’Europa un modello “di sinistra” da contrapporre a quello dominante, anche l’opposizione che si sta delineando a questo governo presenta è criticabile sotto molti aspetti.
[ad]Si sta delineando un’alleanza tra liberali di sinistra (rappresentati ad esempio da Rodotà e dall’area “di sinistra” di Repubblica), area “giustizialista” (Fatto Quotidiano), grillini “dissidenti” e certe aree del PD, sinistra radicale (“beni comuni”, NO TAV ecc.).
Se nella cultura che si va formando entro quest’area ci sono diversi aspetti positivi, come una carica critica verso l’architettura attuale dell’Euro, una denuncia della contiguità spesso eccessiva fra politica, affari e lobby, una spinta alla rigenerazione della politica attraverso l’introduzione di nuove forme di partecipazione, il modo in cui queste questioni sono poste è spesso astratto e legato ad altre istanze meno condivisibili.
In particolare rischia di venire eclissato in questo quadro il tema del partito e di una sua riorganizzazione che non sia una dissoluzione. Il sempre risorgente mito della “società civile” e una concezione troppo individualistica della libertà portano ad eludere il nodo dell’organizzazione, che rimane il presupposto di ogni azione politica efficace, che voglia contrastare, non solo sul piano della protesta moralistica ma anche su quello dell’effettualità lo stato di cose presente.
Questo è stato ben visibile nelle recenti vicende sul disegno di legge sull’abolizione del finanziamento pubblico, che non hanno nemmeno sollevato le stesse proteste che erano montate per altri episodi. Eppure il finanziamento pubblico, presente in tutti i paesi europei con i quali dovremmo ambire a confrontarci, è un presupposto fondamentale dell’autonomia della politica e delle sua possibilità di portare avanti disegni autonomi, contrastando se necessario altri interessi e poteri. La critica giusta al modo in cui queste risorse sono sempre state usate in passato non dev’essere confusa con la questione di principio che il finanziamento pubblico è la condizione materiale della libertà della politica. Non si dimentichi del resto che il finanziamento pubblico fu introdotto negli anni Settanta proprio per l’emergere di scandali legati al finanziamento occulto ricevuto dai partiti da corporazioni private per finanziarsi.
Il non comprendere questo nodo da parte di vaste aree della sinistra è segno di una disabitudine al pensiero politico, inteso come pensiero che vuole realizzare determinati ideali, ma a partire da una valutazione realistica della realtà e delle forze in campo e non confonde la condanna moralistica con il progetto politico concreto.
A sua volta questa carenza di attitudine al pensiero politico è legata all’assenza o alla scarsità di veri luoghi di dibattito ove i complessissimi problemi della nostra epoca possano essere affrontati da una prospettiva sì di parte, ma che rifugga le facili semplificazioni. Lo stato deplorevole di buona parte della stampa italiana incoraggia questa deriva moralistica il cui approdo estremo è il cupio dissolvi di Grillo.
Ha senz’altro ragione Fabrizio Barca quando sostiene che i partiti debbano sviluppare al loro interno maggiori forme di partecipazione e di interazione con la società, ma questo “ascolto” non deve essere neutrale ma accompagnato da uno sforzo attivo di interpretazione e di composizione delle molteplici istanze che dalla società provengono in un’immagine unitaria, in una visione del mondo non statica ma in continuo divenire, che però mantenga una coerenza di fondo con determinati principi e assunti che costituiscono i tratti distintivi, il legame ideale che unisce i militanti e gli aderenti al partito stesso. Una tale idea di partito è ugualmente lontana dall’idea del partito pigliatutto-cartello elettorale-aggregato di correnti quanto dal movimento informe che si fa espressione immediata delle istanze mutevoli che emergono della società. Si tratta invece di un partito che, pur in rapporto costante e aperto con la società, tende ad essere di questa società stessa un costante interprete e mediatore, permanentemente impegnato a costruire di questa società un’immagine, che non si limiti ad essere fantasmatica “narrazione”, ma che sia in rapporto organico con la materialità della società e con le sue evoluzioni da un lato e con le sue speranze, aspettative e paure dall’altra.
Questo, niente di meno, è richiesto per unire le disperse volontà delle “anime” della sinistra nella coerenza e nell’efficacia di un progetto comune. L’irrilevanza e l’impotenza sono, in politica, la più grande immoralità.
Giacomo Bottos