Ancora sangue italiano in Afghanistan. È di poche ore fa (10:30 locali, le 7 italiane) infatti, la tragica notizia di un agguato compiuto nella zona di Farah.
[ad]Farah è l’area meridionale e considerata più a rischio del settore ovest dell’Afghanistan, affidata al controllo dei militari italiani.
Oggetto dell’attacco, un mezzo Lince. Secondo la ricostruzione dei fatti un afghano si è avvicinato al tank sul quale viaggiavano i nostri militari, di ritorno da un’attività congiunta con i soldati afghani, lanciando una bomba a mano.
L’attacco ha causato la morte di un capitano del Terzo Bersaglieri e il ferimento di altri tre commilitoni.
Immediato il messaggio di solidarietà del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale “appresa con profonda commozione la notizia del tragico attentato, esprime i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei familiari del caduto, rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese”.
Per il premier Enrico Letta, il tragico avvenimento è un “sacrifico lancinante”. “Ho appreso poco fa della scomparsa del militare italiano in Afghanistan. A nome mio personale e del governo che guido, rivolgo sincere condoglianze ai familiari della vittima e vicinanza ai feriti e ai loro congiunti”.
Anche il ministro della Difesa, Mario Mauro, ha espresso “profondo cordoglio” per la morte del militare italiano, rivolgendo “sentimenti di grande vicinanza alla famiglia del caduto” e auspicando “pronta guarigione per gli altri tre soldati rimasti feriti, sulle cui condizioni di salute viene tenuto costantemente informato dal capo di stato maggiore della difesa”.
Al di là dei doverosi messaggi istituzionali, è forse arrivato il momento di interrogarsi su cosa stiano realmente facendo i nostri soldati in Afghanistan.
La definizione di missione di “peace-keeping” non regge più. Dal 2004, anno di inizio della missione internazionale ISAF, sono morti 53 militari, più di 35 in azioni di guerriglia e attentati.
Intendiamoci, al lavoro fatto dai nostri soldati laggiù va attribuito il massimo rispetto, visto il quotidiano sostegno alla popolazione civile e il prezioso addestramento fornito alle forze dell’ordine afgane, che ha contribuito a dare un minimo di sicurezza e di tranquillità in quelle disgraziate aree.
Tuttavia non si può ignorare il fatto che, negli ultimi anni, i Talebani abbiano rialzato la testa, tornando forti in molte aree del paese e facendo proselitismo tra una parte dei civili.
E allora quello che occorre non è un abbandono al proprio destino del paese, come paventa alcuno, ma piuttosto un ripensamento ed una rielaborazione, da parte della Nato, della propria strategia, sia bellica che politica, a cominciare dal sostegno incondizionato al regime di Hamid Karzai.
Alessandro Genovesi