L’Italia populista, dibattito sul tema
Populismo, questo sconosciuto. Categoria quanto mai dibattuta, specialmente in questi ultimi tempi in cui il popolo italiano è continuamente chiamato in causa, tirato per la giacca da ogni parte politica che si erge a suo difensore e avvocato. Eppure, a fronte di centinaia di analisi di settore e articoli sul tema, intorno alla categoria del populismo c’è ancora tanta confusione. A fare chiarezza ci hanno provato, sabato scorso, tre nomi illustri: Ilvo Diamanti, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, riuniti sullo stesso palco, a Firenze, in occasione di Repubblica delle Idee, la kermesse culturale promossa dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, per parlare proprio dell’ “Italia post-populista” (questo il titolo dell’incontro).
[ad]Il populismo ha le sue radici, secondo Zagrebelsky, nella crisi della politica: “La vita politica collettiva ha bisogno di simboli – spiega il costituzionalista – e oggi non ce ne sono più. Sono stati sostituiti dai leader, che si propongono come nuovi “simboli” politici: saltano ogni mediazione, puntano a semplificare il rapporto con i cittadini. Per fare un esempio, una volta c’era lo scudo crociato democristiano, con una propria simbologia, un proprio significato. Oggi la crisi della politica è segnata dal fatto che non riesce più a produrre simboli diversi dalle facce dei propri leader”. Il pericolo sottinteso a questa semplificazione è quello della democrazia plebiscitaria: si salta la mediazione della rappresentanza, si parla direttamente al popolo. “C’è un certo tipo di politica – concorda Stefano Rodotà – che usa l’appello diretto al popolo per difendere il proprio personalismo politico, e introduce un elemento autoritario.
Ad esempio, nel Pdl il discorso sulla sovranità popolare è stato amputato della parte in la Costituzione le pone dei limiti attraverso la rappresentanza parlamentare, per farla coincidere tout court con il popolo: insomma, una vera e propria democrazia plebiscitaria”. Democrazia plebiscitaria basata su una legittimazione popolare, più che costituzionale: “Non c’è più democrazia – continua Rodotà – ma solo appelli, non più mediatori ma solo personaggi mediatici che cercano di raggiungere il proprio obiettivo: tagliare via ogni mediazione critica”. Nessun attacco agli strumenti, ma solo al modo in cui vengono utilizzati: insomma, il problema non è il media, ma il messaggio, ed il riferimento è, nemmeno troppo velato, alla rivoluzione informatica grillina: “Cercare di combattere un movimento politico demonizzando la rete – continua il giurista – è un errore clamoroso.
La televisione, Internet, sono solo strumenti che producono determinati risultati. La democrazia rappresentativa non è messa in pericolo da forme di democrazia partecipata, ma dall’ignoranza di chi vede in tali forme un pericolo”. E sulla rivoluzione sancita dal voto del 24-25 febbraio si concentra Diamanti: “Si è determinata – spiega il politologo – una nuova frattura, non colmabile, che ha reso evidente come metà degli elettori oggi non si identifichino più nei soggetti che hanno dato vita alla seconda repubblica ed al bipolarismo per come lo conoscevamo.
Nel 2008 Pdl e Pd avevano preso più del 70%, oggi sono fermi al 46: le due coalizioni non arrivano, insieme, a raccogliere il 60%” Un vuoto di rappresentanza colmato solo in parte da Grillo, anche se il recente turno di amministrative non segna nessun cambiamento rispetto a febbraio: “A livello nazionale – continua Diamanti –i partiti personali e personalizzati, vedi quelli di Berlusconi e Grillo, riescono a raccogliere grande successo grazie alle abilità del loro leader. Il Pd è invece un partito impersonale: manca il leader, ma là sono presenti il partito, i militanti, l’organizzazione interna: per questo vince a livello locale, perché ha il personale adatto, l’organizzazione”.
E non è certo un caso che, in tempi di nuovi uomini forti e appelli diretti al popolo, si sia tornato a parlare di presidenzialismo o semipresidenzialismo.
Un’ipotesi che trova nei tre protagonisti un malcelato pessimismo, a partire dalla modalità scelta, quella della commissione delle riforme:
“Per riformare la Costituzione – spiega Diamanti – ci vogliono ottime ragioni e condivisione collettiva. Le nostre regole costituzionali vennero scritte da una vera e propria comunità, e per cambiarle devi muoverti nella stessa logica di comunità, che non è quella, odierna, delle larghe intese”.
Ancora più dubbioso, Zagrebelsky mette in guardia dal voler adottare il presidenzialismo in quanto sistema già adottato in altri stati: “Io non sono preoccupato del presidenzialismo in sé – spiega il costituzionalista – ma dobbiamo capire che le formule costituzionali hanno un rendimento diverso in base al paese in cui vengono applicate: la formula presidenzialista, se applicata in paesi caratterizzata da alto livello di corruzione e basso livello di istruzione dei cittadini quali l’Italia, dà risultati negativi. Per questo credo che il modello presidenzialista sia un pericolo per la nostra democrazia. L’antitodo è, invece, la promozione e difesa dell’istruzione, della cultura”. Chiude un sibillino Rodotà: “Se davvero passasse il presidenzialismo, immaginate chi sarebbero i primissimi candidati…”