Gli ultimi giorni nei paesi nord europei si possono raccontare attraverso un sentimento: il pessimismo.
[ad]C’è pessimismo in Finlandia dopo la diffusione delle ultime stime di crescita. C’è pessimismo in Danimarca, dove nei sondaggi il governo resta lontanissimo dall’opposizione.
C’è pessimismo in Norvegia dove gli elettori laburisti ci credono poco a una rimonta elettorale. In mezzo a tutto questo, le frasi di Ólafur Ragnar Grímsson, presidente della Repubblica islandese, personaggio che spesso e volentieri fa parlare di sé.
Grímsson passa per essere uno che fa di testa sua, ma che ha pure invidiabili doti di strategia politica. Qualche giorno fa ha detto che lo scioglimento dei ghiacci nei mesi estivi gioverà all’Islanda: “Che piaccia o no, l’isola si trova al centro delle future rotte marittime”. Insomma il cambiamento climatico può portare vantaggi economici. Difficile dargli torto, in effetti, almeno se si considera la questione solo dal punto di vista commerciale, ma a sorprendere ancora una volta è il modo spregiudicato con cui Grímsson dice la sua.
Un altro esempio ce lo ha dato la scorsa settimana, affermando che nel Vecchio Continente molti leader europei non sarebbero entusiasti di avere l’Islanda nell’Unione europea. Lo sa perché glielo avrebbero detto.
Il presidente non ha fatto nomi ma a Bruxelles si sono sentiti lo stesso in dovere di puntualizzare: Štefan Füle, commissario europeo per l’allargamento e la politica europea di vicinato ha dichiarato tramite il proprio portavoce che tutti i leader dell’Ue erano e sono favorevoli all’ingresso dell’Islanda nella Comunità, anche se la prospettiva si è allontanata e di molto dopo la vittoria elettorale del centrodestra.
Di elezioni, voti e scenari futuri si discute pure in Norvegia dove nei giorni scorsi i quotidiani sono stati inondati di numeri e percentuali. Secondo i sondaggi, resta saldamente in testa il partito della Destra (30,2 per cento), i laburisti inseguono (29,2), il Partito del Progresso si piazza bene (18,6) e praticamente tutti gli altri annaspano. Sotto la soglia di sbarramento del 4 per cento stanno i Liberali e il Partito di Centro.
Una situazione che va avanti da diversi mesi, come da qualche mese è chiaro che ai norvegesi piace l’idea di avere come prossimo primo ministro Erna Solberg, leader della Destra: ad indicarla come la persona migliore per quell’incarico è più del 43 per cento dell’elettorato, il premier Jens Stoltenberg si ferma al 40. E sarà anche per questo che tra gli elettori laburisti c’è pessimismo: un quarto di loro è convinto che il Stoltenberg non otterrà un terzo mandato consecutivo.
È anzitutto su questo che i laburisti devono lavorare: c’è stanchezza nelle fila dei sostenitori del partito, un velo di sconforto, molti non sono spaventati dalla prospettiva di un cambio di governo. “I partiti di centrodestra vogliono portare la Norvegia in tutt’altra direzione” ha sottolineato Stoltenberg e non è la prima volta che lo fa. Ma per ora non è servito a molto.
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[ad]In Danimarca invece il governo di centrosinistra tira un sospiro di sollievo o prova a farlo. I sondaggi degli ultimi giorni non dipingono scenari rosei, ma almeno s’è arrestata l’emorragia di consensi.
Secondo i numeri diffusi dalla Gallup, i laburisti della premier Helle Thorning-Schmidt sono al 20,6 per cento. C’è comunque poco da sorridere.
Il partito resta lontanissimo rispetto al 24,8 delle elezioni del 2011 e quando si vanno a mettere insieme i voti virtuali del centrodestra e quelli del centrosinistra a prevalere nettamente è il blocco conservatore. I numeri della Gallup lasciano pochi dubbi: 54,2 contro 45,6.
Insomma un’eternità, ma il governo ha tutta l’intenzione di godersi pienamente questa boccata d’ossigeno. Ora c’è l’estate, subito dopo il voto per le amministrative: già lì si capirà un po’ di più sul vero stato di salute del governo.
In Finlandia, invece, insieme alla stagione estiva arrivano pure i brutti numeri sull’economia. La Banca centrale infatti ha tagliato le stime di crescita per il 2013 dal +0,4 per cento a un cupo -0,8.
La recessione colpisce più duro di quel che a Helsinki avevano sperato: colpa dell’aumento della disoccupazione e del calo dei consumi interni.
La Finlandia, ha spiegato il governatore della Banca centrale Erkki Liikanen, si trova in mezzo al guado: sta riconvertendo il proprio tessuto produttivo e patisce gli effetti della crisi economica. Un mix potente, e gli effetti si vedono.