Questione (im)morale
Più si scava nel torbido, più escono le voci bianche. Tra le infinite contraddizioni che abitano questo Paese c’è anche il risvegliarsi dei “moralizzatori”, che scatta puntuale, all’unisono con il tintinnare delle manette. Torna quindi a tenere banco l’annosa “questione morale” di berlingueriana memoria. E torna per tutti. Pier Ferdinando Casini, dopo l’arresto del consigliere comunale di Milano Pennisi, si accorge improvvisamente che “stanno capitando cose brutte in giro per l’Italia“. Non si tratta di essere giustizialisti: “Ritengo il giustizialismo un peccato mortale e lo detesto, ma guai a confonderlo con l’idea che la corruzione non esiste, con l’impunità per tutti”. Conclusione: “La questione morale esiste e dobbiamo avere il coraggio di sollevarla: i giudici non si possono sbagliare sempre, si possono sbagliare ogni tanto. Il livello etico in questo Paese si è abbassato pericolosamente”. Viene da chiedersi rispetto a quando.
L’idea ad ogni modo mette tutti d’accordo. Ignazio La Russa ne fa ”il presupposto centrale e fondamentale non solo in Campania, ma in tutto il Paese”. Al punto di rispolverare, per il PDL, il codice etico. Del resto “è necessaria, all’interno del Pdl, una rinnovata consapevolezza circa la questione morale che va affrontata con le riforme, conpropositi precisi e chiari […]“. In questo caso verrebbe da chiedersi quali.
Dall’altro lato della barricata giunge l’eco di Rosy Bindi, che parla di una “nuova questione morale” della quale il premier dovrebbe venire a riferire in parlamento. E “non solo perché ogni giorno un politico finisce sotto inchiesta” (quello, infatti, non sarebbe niente di nuovo), ma soprattutto perché ora si tratta di accertare le responsabilità del “funzionario pubblico che gode di maggiore credibilità” (Bertolaso), e che dunque “più di altri ha il dovere di rendere ragione del suo operato”. In sostanza, se non si parlasse di un eroe che opera nelle (ormai onnipresenti) emergenze, niente questione morale, e niente “commissione d’inchiesta”. La domanda è, ovviamente, perché.
Anche il giornalismo si lascia trascinare dall’ondata moralizzatrice. Ferruccio De Bortoli, ad esempio, lamenta l’esistenza di un “fenomeno trasversale agli schieramenti politici, segnato più dall’avidità e dall’edonismo individuali o di gruppo che dalle ragioni di appartenenza a un partito o a una corrente come avveniva con Mani Pulite”. La differenza è che chi ruba non ne ha più vergogna. E dunque “dovremmo domandarci tutti (stampa compresa) se il livello degli anticorpi della nostra società non sia sceso sotto il limite di guardia“. Un esempio “diseducativo e devastante” per le “nuove generazioni”. Certo, De Bortoli. Tuttavia dovremmo domandarci anche dove: e cioè dove fosse il direttore mentre tutto questo accadeva; dove fosse mentre il Corriere perdeva la sua capacità di parlare con autorità, per assumere un atteggiamento di inutile non belligeranza.
Paolo Mieli prevede che stia per “saltare il tappo”, Borrelli rilancia snocciolando leanalogie con Tangentopoli. Il tutto per un valore, ricorda Travaglio, compreso tra i 40 e i 60 miliardi. In presenza di una tale confusione di interessi a poco serve, come ha fatto il sindaco di Milano Moratti, escludere paralleli con la fine della Prima Repubblica: se son rose sfioriranno. Fa quasi tenerezza, dunque, dover leggere da parte di un condannato in via definitiva come Paolo Cirino Pomicino, che di quella stagione fu protagonista (Montanelli di lui scriveva: “[al ministero del] Bilancio un personaggio che sapeva farlo quadrare molto bene, il suo s’intende”), le dichiarazioni rilasciate oggi a Il Tempo:
Non si può immaginare, ad esempio, che se un Consigliere comunale di Milano prende soldi, l’intero Consiglio comunale possa essere sospettato.
E certo, perché dovremmo? Tutto sommato, chiosa Cirino Pomicino, “il termine questione morale è stato usato molto spesso dagli immorali“. Su questo impossibile formulare alcuna domanda: gli ipocriti hanno già risposto.
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