Sono passate le elezioni regionali e si scorge un nuovo scenario per le forze politiche in campo: niente elezioni per i prossimi tre anni.
Niente elezioni, a livello nazionale – ovviamente – e a livello locale, se si esclude l’importante test amministrativo del prossimo anno che vedrà eleggere i sindaci di Milano, Torino e Napoli.
Questa situazione porta ad un vero e proprio “salto nel buio” il sistema politico italiano. Ed è un salto che riguarda tutti. Maggioranza e opposizione.
Per l’opposizione, intenta a costruire l’alternativa programmatica al centrodestra e il cantiere delle alleanze, non ci sarà una vera e propria prova del 9 per testarne l’efficacia. Dovrà accontentarsi dei sondaggi, nella migliore delle ipotesi, o della percezione, nella peggiore. Forse l’unica vera prova del 9 è rappresentata dalle elezioni regionali della scorsa settimana. Se così fosse, occorrerebbero cambiamenti radicali a sinistra!
Una situazione analoga sembra prospettarsi per il governo: il governo è popolare o no? Le riforme adottate dall’esecutivo sono gradite o no dalla maggior parte della popolazione? Il Cavaliere, come ben sappiamo, fa incetta di sondaggi e spesso li considera più importanti del voto reale. Ma, a parte qualche segnale, difficilmente si potrà dare una risposta a queste domande in termini di voto popolare.
Da questo punto di vista quindi il centrodestra pare essere in vantaggio e costituire la parte politica maggiormente in grado di sfruttare gli aspetti positivi di questa vacanza forzata dalle urne. Ma non è solo per questo che il governo è intenzionato a rispolverare quel suo “attivismo a giorni alterni” che lo porta ad essere passivo spettatore in certi casi e “governo del fare” in altri (il caso delle varie calamità naturali che ha colpito il nostro paese ne è un fulgido esempio).
Si parla di grandi riforme istituzionali destinate a cambiare definitivamente il paese (se Berlusconi è stato al governo in 10 degli ultimi 15 anni perché non ha messo mano prima a queste “grandi, grandi” riforme?).
Si parla quindi di riforma del fisco; ma soprattutto si parla di tre grandi temi che, in una visione di coalizione pacifica e serena, corrispondono a tre temi clou per i tre leader del centrodestra: la riforma federalista (Bossi), la riforma della giustizia (Berlusconi) e quella che riguarda la forma di governo (Fini). Ed è proprio di questa ultima che vorrei occuparmi.
In primo luogo è necessario sottolineare lo stato della discussione in merito al cambiamento della forma di governo: Berlusconi, in una delle sue consuete uscite, ha parlato di presidenzialismo. Successivamente ha parlato anche di presidenzialismo “votato dai gazebo del Pdl”. È cosa nota che Berlusconi probabilmente ignora di cosa si sta parlando, ed è giusto anche segnalare che in seguito a questa geniale trovata del “presidenzialismo al gazebo” (che poi è una rozza metafora per definire una forma di governo di tipo plebiscitario) Fini ha risposto che il tema delle riforme è cosa seria. E ha dimostrato un certo interesse nell’occuparsi di questa tematica.
Il presidenzialismo è una storica battaglia della destra italiana, a partire dai primi anni del Movimento Sociale Italiano. Da questo punto di vista non possiamo definire Fini un incoerente, e possiamo ben comprendere le sue motivazioni.
Le ragioni che però portarono l’Assemblea Costituente ad adottare un sistema parlamentare e non presidenziale erano principalmente dovute al fatto che si doveva evitare ad ogni costo “un uomo solo al comando” (così come era avvenuto durante il fascismo con Mussolini). Da qui una Costituzione che prevede un ruolo centrale per il Parlamento (che dà la fiducia al governo) ed una forma di bicameralismo perfetto proprio per esaltare le prerogative centrali dell’Assemblea eletta a suffragio universale.
Adesso si potrebbe fare un altro lungo discorso sull’anacronismo del bicameralismo perfetto che, oltre ad essere un unicum a livello europeo, risulta essere causa di gran parte della lentezza della legislazione. Ma qui il punto che si pone è un altro.
Berlusconi parla di presidenzialismo sognando il plebiscito (e facendo confusione: inizialmente non si era nemmeno capito quale tipo di presidenzialismo prendesse a modello), Fini parla di presidenzialismo classico (suppongo dunque che si riferisca al modello statunitense), altri si oppongono fortemente a questa ipotesi e comunque richiamano un, sacrosanto, dibattito parlamentare sul tema.
Ma in effetti, per discutere di temi così importanti e così complessi, occorrerebbe compiere una difficile operazione: riscoprire il “politologo nascosto” che è in noi.
Fatta dunque questa operazione non può che sorgere questa domanda: ma siamo sicuri che il presidenzialismo sia la miglior forma di governo per questo nostro paese? Quali effetti può causare?
Alla prima domanda non possiamo non dare una risposta netta dovuta al pressapochismo dei soloni del centrodestra: il sistema presidenziale puro così com’è non è adatto al nostro paese.
In primo luogo perché i casi di sistema presidenziale puro sono pochissimi in Europa. L’Europa è composta da una serie di paesi di medie dimensioni con caratteristiche culturali (ma non demografiche) simili. E non è un caso che i “veri” presidenzialismi si trovano dall’altra parte dell’oceano.
Forse Fini e il suo gruppo di “Italia Futura” avrebbe dovuto dire più chiaramente: vogliamo un sistema semi-presidenziale. Ottimo, ma qui il discorso cambia. Rispondendo con una battuta alla prima domanda che ci siamo posti, potrei dire che anche la Federazione Russa, oltre la Francia, ha una forma di governo semipresidenziale. Non so se Fini vuol elevare Putin a modello. Berlusconi sicuramente sì.
Fatto sta che il semipresidenzialismo francese è la forma di governo che attribuisce più poteri al capo del governo (che è anche capo dello stato ed è eletto ovviamente dal popolo) a livello europeo (ironicamente qualcuno definisce la Francia come una “dittatura costituzionale”).
Quindi il racconto è un po’ diverso. Ma la risposta, come prima, non può essere che: no! Anche in questo caso il semipresidenzialismo nella realtà italiana non è la forma di governo più adatta: la Francia infatti è storicamente uno dei paesi più accentrati del mondo e per capirlo bastano due esempi, uno demografico e uno economico:
-la Francia ha 65 milioni d’abitanti. Parigi ne ha 10 milioni. Fini dovrebbe capire già la natura del problema: si tratta di un paese molto accentrato che è molto concentrato nella sua capitale che ospita più di un settimo della popolazione totale. E considerate che la Francia per quanto riguarda la superficie territoriale è più grande dell’Italia. Quindi, se escludessimo Parigi ci troveremmo un paese più grande dell’Italia…con due milioni d’abitanti in meno!
-sul fronte economico basti pensare al ruolo importante che ha sempre rivestito il settore agricolo nazionale. Il nostro primo punto ben spiega anche il secondo: in Francia c’è una grossa quantità di terreni coltivabili anche in quanto gli abitanti sono pochi in rapporto alla superficie. Poche città dunque. E molte campagne.
La Francia quindi è un paese accentrato. E un paese storicamente accentrato ha bisogno di un forte leader per lo stato centralizzato. Prima il Re Sole, poi un “imperatore dei francesi”, infine un Presidente della Repubblica eletto dal popolo con molte competenze e poteri, grande intuizione di De Gaulle che guidò su questo punto il passaggio da Quarta a Quinta Repubblica.Anche la Russia storicamente ha una tradizione simile di “uomo forte al comando”, ma dovuta principalmente al persistere di forme più o meno occulte di assolutismo come unico modo per tenere a bada un paese immenso.
La realtà italiana è molto diversa: non è uno stato nazionale dal ‘500 e nasce come espansione di un vecchio regno. Non dispone di un centro cittadino immenso e di tante piccole città, ma al contrario possiede una serie di città piccolo-medie e addirittura la capitale economica del paese non corrisponde a quella istituzionale.
Se possono sembrare assurdi discorsi di questo tipo a proposito della forma di governo, ci si chiede quali altri ragionamenti andrebbero fatti.
L’Italia deve restare una Repubblica Parlamentare. Con un Capo dello Stato garante delle istituzioni ed un Parlamento che rappresenti tutte le istanze della cittadinanza. Ovviamente molti meccanismi vanno rivisti, per migliorare l’iter legislativo, e sulle funzioni della seconda camera come fotocopia di quelle della prima la contrarietà è evidente.
Dovrebbe essere compito di una seria classe dirigente difendere l’istituto parlamentare e le ragioni del parlamentarismo. Migliorando le procedure di lavoro per il governo, ma sempre in un ottimo dicotomica governo-parlamento. Non sarebbe cattiva cosa se il capo del governo riferisse settimanalmente in Parlamento.
Ah, dimenticavamo l’ultima domanda: gli effetti del presidenzialismo in Italia?
Molto semplice rispondere: o si finisce come gli Stati Uniti o come il Venezuela.
E anche per questioni climatiche questo paese tende ad essere colpito dalla sindrome del “caudillo”.