L’ultima parola alla Rete
Il nome di Adele Gambaro rimbalza da giorni da un sito a un telegiornale a un articolo di carta stampata: il caso relativo all’espulsione della senatrice del MoVimento 5 Stelle sta occupando quasi stabilmente spazi sui media, con annesse polemiche politiche e non solo. Qui non si giudicherà la vicenda, non si dirà nulla sull’opportunità di espellere o meno la cittadina (ciascuno era e resta libero di farsi l’idea che crede), ma vale la pena di riflettere un po’ sulla scelta di dare «l’ultima parola» alla Rete, così come è stato scelto dall’assemblea dei parlamentari M5S di Camera e Senato (che pure, a quanto si è detto, si è espressa per l’espulsione a maggioranza dei presenti).
[ad]Su cosa esattamente saranno chiamati a votare gli attiVisti a 5 Stelle? Sull’espulsione della senatrice Gambaro, d’accordo, ma da che cosa? Da fonti parlamentari si apprende che il voto riguarderebbe non tanto l’esclusione dal MoVimento, bensì l’espulsione dal solo gruppo parlamentare del Senato. Le due cose, per quanto siano affini, non coincidono: l’espulsione di un attiVista dal MoVimento è probabilmente più complessa da configurare almeno sul piano delle regole. Ogni gruppo parlamentare si dà un proprio regolamento, pubblicato nel sito della Camera di appartenenza: in questo caso, si tratterebbe di applicare l’art. 12 del Regolamento del gruppo M5S Senato, in base al quale è il Presidente del gruppo (in questo caso, Nicola Morra) a provvedere all’espulsione, su delibera dell’assemblea dei parlamentari (deputati e senatori insieme) a maggioranza dei propri componenti, ma – prevede l’ultimo comma – «[i]n ogni caso, l’espulsione dovrà essere ratificata da una votazione on line sul portale del MoVimento 5 Stelle tra tutti gli iscritti, a maggioranza dei votanti».
Si tratta, a ben guardare, di una questione di non poco conto. Se «l’ultima parola» viene affidata alla Rete, significa che il Presidente si limiterà a prendere atto della decisione degli “iscritti”, anche se dovesse essere di segno diverso rispetto a quella uscita dall’assemblea dei parlamentari. Di fatto, in questo modo, una decisione su un evento puramente interno alle Camere viene demandata “ufficialmente” a soggetti (gli attiVisti, in questo caso) che ne stanno fuori. Ci si può chiedere, a questo punto, se questa pratica sia rispettosa fino in fondo del principio di autonomia del Parlamento e del dettato dell’articolo 67 della Costituzione, quello in base al quale «[o]gni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
In effetti, se dell’autonomia del Parlamento e del divieto di mandato imperativo si dà una lettura severa ed estensiva, qualche dubbio è lecito che sorga: non sembra particolarmente in linea con l’autonomia delle Camere che decisioni che attengono solo alla dinamica parlamentare (che, dunque, riguardano il gruppo e non il MoVimento, che non appartiene al Parlamento) siano in definitiva decise da chi delle stesse Camere non fa parte; allo stesso modo, è difficile negare che un’eventuale espulsione decretata dal voto degli elettori, soggetti esterni al Parlamento, metta l’eletto in condizione di non potere (più) svolgere il proprio mandato parlamentare nel modo desiderato, se non altro perché è “costretto” a farlo in un gruppo diverso da quello da cui non ha scelto di uscire (ritenendo magari prevalenti le ragioni di permanenza rispetto a quelle di dissenso).
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Detto questo, occorre però un bagno di realismo, innanzitutto giuridico. Da un lato, infatti, l’autonomia del Parlamento (e, in questo caso, di un gruppo parlamentare) potrebbe dirsi salvaguardata perché nei fatti è proprio il singolo gruppo a decidere, in piena libertà, di sottoporsi al giudizio di un proprio gruppo di riferimento (dunque gli attiVisti). Dall’altro, si deve anche riconoscere che l’espulsione dal gruppo, qualora avvenga, non fa perdere al singolo parlamentare le proprie prerogative, cambiando solo la cornice (il gruppo) in cui questi le esercita: la votazione on line violerebbe la Costituzione se comportasse la decadenza automatica da deputato o senatore della persona sanzionata, ma dal momento che questa mantiene il proprio incarico, è in linea con l’interpretazione che oggi si dà dell’articolo 67.
[ad]Il bagno di realismo, peraltro, dev’essere soprattutto politico e sociale. L’idea di affidare il destino di un parlamentare al voto di un gruppo di persone a consistenza variabile (nel regolamento del gruppo M5S Senato si parla di maggioranza dei votanti, senza alcun quorum) può legittimamente non piacere, ma nessuno potrebbe seriamente sostenere che sia preferibile l’influenza dei partiti che si è registrata da sempre nella vita politica della Repubblica. È un dato storico che la “disciplina di partito” abbia condizionato quasi in ogni momento il comportamento (dai voti sulle leggi all’espressione della fiducia) degli appartenenti ai vari gruppi parlamentari, che spesso coincidevano con i partiti; non sono certo mancate le espulsioni dai gruppi dei soggetti che non si conformavano alle direttive dei partiti “retrostanti”. Si badi, neanche in quel caso dall’espulsione poteva derivare alcuna decadenza: anche allora sarebbe stata illecita (e inefficace) una pratica come le “dimissioni in bianco”, mediante una lettera precompilata e firmata dal parlamentare, cui il Presidente del gruppo aggiunga la data per far cessare da quel momento il mandato del parlamentare “disobbediente”.
Oggi come allora, dunque, le dimissioni sono lasciate all’iniziativa e alla coerenza di ciascun eletto e non è possibile costringere nessun “reprobo” alle dimissioni (anche se è probabile che qualcuno voglia le dimissioni della Gambaro, come in passato qualcuno le avrebbe volute da Riccardo Villari, Giulio Tremonti, Domenico Scilipoti, dai leghisti “ribaltonisti” del 1994 e da tanti altri). Oggi, tuttavia, c’è se non altro l’indicazione a chiare lettere del procedimento decisionale, si ammette chiaramente che a decidere sull’espulsione sarà qualcuno di esterno (e da cui, almeno indirettamente, dipende la presenza del singolo parlamentare nell’aula): è qualcosa di più onesto, a ben guardare, di quanto è sempre accaduto nelle altre formazioni politiche, in cui di fatto erano i dirigenti dei partiti – in parte presenti in Parlamento, ma non sempre – a prendere ogni decisione su chi doveva lasciare il gruppo, anche se di fatto tutto figurava come frutto di democraticissime votazioni interne. Si può non condividere quello che accade in questi giorni, a patto di non pensare in automatico e in modo acritico che «era meglio prima».