Inizia la resa dei conti dentro il Pdl (ovvero: I dolori del giovane Bocchino)
La figura di Italo Bocchino è senza dubbio una figura che suscita una profonda simpatia. Non solo per gli studi partenopei e per i trascorsi presso quella scuola che ebbe in Pinuccio Tatarella principale esponente, dalla quale trapelava una sincera passione politica se non, come direbbe Gennaro Malgieri riferito ad Almirante, “un’etica del parlamentarismo”.
Ma suscita simpatia specialmente per una questione (no, non mi riferisco al fatto che fosse candidato contro Bassolino alle regionali del 2005, con gli esiti prevedibili che tutti voi sapete e con quella rara perla che fu la sua lettera a “Il Mattino” in cui si denunciavano i rapporti tra Bassolino e gli Khmer Rossi): è un ragazzo che si da da fare.
Da vice-capogruppo del Pdl alla Camera non esita a differenziarsi (non nel senso “rotondiano” del termine, per il quale si rimanda ad una sterminata esegesi e storiografia) e non esita a promuovere numerose iniziative interne al suo partito.
Passata agli onori della cronaca l’esperienza fondativa di “Generazione Italia”, fantomatico gruppo interno, che nella tempistica già anticipava tempi bui e nefasti per Sua Emittenza e archiviati nel solco dell’abitudine i plausi alle iniziative di Campi e Sofia Ventura su Fare Futuro, il buon Bocchino prima della sua barbara epurazione aveva avuto modo di far nascere un bimestrale dall’impegnato nome “Conservatori contemporanei” che, sede in via Giosuè Carducci a parte, è passata nel silenzio più assoluto.
Il giovane Bocchino dunque è stato al centro in questi giorni di un qualcosa che rischia di divenire abitudine, se non prassi, all’interno del partito di maggioranza: dopo aver scritto una lettera di dimissioni chiedendo analogo gesto al suo capogruppo Cicchitto, ha annunciato di volersi candidare lui stesso alla carica di Presidente dei deputati del Pdl.
Perché mai questo gesto? La risposta è abbastanza semplice e anche comprensibile.
Essendo Bocchino “il più finiano dei finiani” (Copyright di Danienal Santanchè, neo-sottosegretaria del potentissimo ministero per l’attuazione del programma) egli si è sempre sforzato di sancire definitivamente la nascita di una vera e propria corrente di minoranza all’interno del Pdl.
Un progetto che sul piano sostanziale è stato pienamente realizzato da Gianfranco Fini che alla direzione del Pdl ha avuto uno scontro politico e dialettico notevole col Presidente del Consiglio. Sul piano formale però l’idea finiana è da considerarsi fallita. O almeno parzialmente fallita.
Questo perché la stessa direzione del Pdl ha approvato un documento in cui si ricordava che se i cittadini avevano deciso denominare quel soggetto politico “Popolo della Libertà” e non “Partito della Libertà” non era per l’inquietante omonimia con la forza politica che fu di Joerg Haider, ma perché chiedeva un superamento stesso delle vecchie concezioni partitiche. Insomma, come direbbe Maurizio Lupi: una nuova politica.
Da qui l’assoluta impossibilità di costituire minoranze o correnti interne al Pdl. Il parziale fallimento è dovuto sostanzialmente al fatto che si è avuto modo di registrare una forma di dissenso col voto contrario di 11 (o 13, non entro nella bega) membri della direzione che, facendo tutti parte della mitica categoria dei “finiani”, hanno avuto modo di esporre la fine dell’unanimismo pidiellino.
Resta il fatto che per la direzione nazionale del Pdl non esiste alcun gruppo o minoranze interna.
Ed ecco qui che spunta il coniglio dal cilindro di Bocchino, capace di immolarsi pur di far trionfare gli ideali di quella “destra moderna, repubblicana, capace di tutelare la coesione nazionale”: si voti il capogruppo dei deputati, io mi candidato così se perdo si sancisce il fatto che alcuni deputati stanno con me, nella mia stessa area.
Il disegno appariva lodevole, soprattutto ai piani alti di Montecitorio. Ma le cose non sono andate bene per il “Conservatore contemporaneo”: in primo luogo infatti il Pdl ha subito fatto capire che le dimissioni del vice non portano necessariamente al decadimento del capogruppo dei deputati. Insomma, il “simul, simul” in questo caso non vale (vale per il sistema elettorale regionale però…detto “Tatarellum”!). In secondo luogo il sottosegretario al ministero dell’Ambiente Roberto Menia (triestino coraggioso, ex missino capace di criticare la fusione a freddo con cui nacque il Pdl) ha avuto uno screzio con Bocchino ed ha annunciato la sua candidatura per la medesima carica.
In terzo luogo, dopo che il gruppo del Pdl si era espresso contro la rielezione dei capogruppo, lo stesso Bocchino è stato praticamente rimosso dall’incarico per ordini dall’alto.
E’ stato lo stesso ex vice-capogruppo ad aver dichiarato che, a seguito della sfuriata presso il programma di Paragone, Berlusconi ha sostanzialmente chiesto la sua testa minacciandolo addirittura, udite udite, d’infilzarlo.
Da qui poi le dichiarazioni di Fini che, coerente con la parte, ha difeso Bocchino “cacciato via senza ragione”.
Tra la Lega che spinge per i decreti attuativi sul federalismo fiscale (11 da concludere entro il 21 maggio 2011) e una minoranza che lotta per essere tale, Berlusconi si trova sempre più costretto a prendere decisioni da Politburo e già ha minacciato di non rivotare presidenti di commissioni di stretto rito finiano (la Bongiorno, Silvano Moffa e Mario Baldassarri).
Che poi sono le decisioni che più gli aggradano e che più gli si confanno. Considerando che ha invitato l’amico Vladimir Putin all’università del pensiero liberale.
Purtroppo nel ruolo di docente.