Nagorno Karabakh: sul filo dell’equilibrio instabile
Un conflitto derubricato
Il ponte dell’inimicizia che si estende tra Armenia ed Azerbaijan porta il nome di Nagorno-Karabakh: una regione di appena undicimila chilometri quadrati, abitata da meno di centocinquantamila persone, di etnia prevalentemente armena.
[ad]Era il 1992 quando ad Helsinki il Segretario dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (che da questo momento chiameremo semplicemente OSCE) inseriva tra le note dell’agenda internazionale una Conferenza, da tenersi (solo presumibilmente) a Minsk, in merito all’affaire del Nagorno. Al cd. Gruppo di Minsk, la cui Presidenza è attualmente condivisa da tre Paesi, sono invitati a partecipare Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Cecoslovacchia, Federazione Russa, Francia, Germania, Italia, Stati Uniti, Svezia, Turchia e – in qualità di parte interessata – anche i rappresentanti del Nagorno-Karabakh.
É di pochi giorni fa il meeting di Enniskillen (cittadina dell’Irlanda del Nord), a seguito del quale i copresidenti del Gruppo di Minsk hanno comunicato di continuare a credere con fermezza nella strategia che il working group ha elaborato negli ultimi quattro anni, in vista di una definitiva risoluzione del conflitto, che assumerà concretezza solo quando la popolazione sarà capace di mettere in disparte passati rancori.
In verità, la sensazione irritante con cui parte dell’opinione pubblica ha accolto la neutralità delle dichiarazioni divulgate dalle agenzie di stampa potrebbe trovare la sua raison d’être nell’ambiguo approccio europeo alle problematiche dell’area caucasica. Ancora oggi non è affatto semplice parlare di un conflitto che sull’ultimo scorcio degli anni Ottanta si è abbattuto su una modesta porzione dell’Eurasia: erano gli anni in cui la polveriera balcanica minacciava un’esplosione imminente e l’intervento prioritario della comunità internazionale a fronte dei molteplici crimini di guerra e di una sistematica pulizia etnica ha lasciato cadere nell’oblio il conflitto armeno-azero.
Solamente nel 1992 l’Osce si preoccupava di comprendeva la reale portata delle ostilità e – scostando quella discreta cortina di silenzio – si proponeva di avviare i negoziati di pace, ricorrendo all’arte mutevole della mediazione internazionale. Correva ancora l’anno 1992, quando il Nagorno-Karabakh proclamava ufficialmente la nascita della nuova Repubblica, sebbene il (proprio) Parlamento ne avesse dichiarato l’indipendenza già quattro anni prima. Così, ricominciava il conflitto ancora una volta dimenticato.
In un ormai distante 1994, i rappresentanti dei due Paesi firmavano in Kirghizistan un cessate il fuoco, che non è bastato a rendere giustizia alle oltre trentamila vittime e a quasi un milione di sfollati.
La moderata esposizione dell’impegno internazionale
Anche adesso che lo status quo appare la forma capovolta del progresso, non si è registrata alcuna evoluzione: succede che le frequenti schermaglie costringano l’esercito armeno a schierarsi a difesa dei confini della regione e della fascia di sicurezza circostante e, ad aggravare un prospetto di per sé poco confortante, continua una guerra tra cecchini che ogni anno aumenta il numero dei caduti, anche tra i civili.
A dispregio delle trattative di pace, i dati della spesa militare sfoggiano una potenziale aggressività abilmente mimetizzata da una caotica diplomazia, e lasciano presagire che il conflitto non è affatto congelato, bensì dinamico e carico di tensione. Mettere un punto alle ostilità non sembra un obiettivo raggiungibile nel medio termine: l’Armenia invoca logiche culturali e sociologiche che motiverebbero come il Nagorno-Karabakh sia parte integrante dell’identità nazionale; viceversa, l’Azerbaijan antepone ragioni di orgoglio nazionale.
La storia del Caucaso ricorda che i conflitti dell’era post-sovietica patiscono le conseguenze dei giochi di potere intrapresi dalle potenze concorrenti e, se è vero che niente è lasciato al caso, è semplice intuire perché, specialmente dal 2010, l’Azerbaijan si sia avvalso dell’assistenza militare prestata dalla Turchia, mentre Mosca sia il principale alleato dell’Armenia.
Anche l’Iran, nei giorni appena trascorsi, ha rinnovato il proprio impegno verso una composizione del contenzioso del Nagorno-Karabakh, palesando una sensibilità di vecchia data che lega la Repubblica Islamica alle vicissitudini della limitrofa Armenia, un’isola etnica nel cuore della regione turco-tatara.
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È emblematico come finora, nessun paese – e nemmeno Yerevan- abbia riconosciuto l’indipendenza della Repubblica del Nagorno. Si accennava poco prima all’abilità negoziatrice dell’Osce, che ha talvolta prestato il fianco a parecchie oscurità. Non ultima la dichiarazione congiunta rilasciata dai Presidenti di Usa, Francia e Russia i quali, in virtù di un’impalpabile scrupolosità, insistono per un assetto di integrazione e stabilità. Un punto di arrivo che il Nagorno-Karabakh potrebbe raggiungere solo se i due paesi subordinassero gli interessi di parte al rispetto dei principi di Helsinki e alle reali esigenze della popolazione.
[ad]E invece tra Yerevan e Baku si estendono spazi indecifrabili; non c’è niente di nuovo nell’affermare che la memoria politica e quella collettiva sono le più ostiche da scardinare.
Si è detto dell’incapacità dell’Osce di smaltire un conflitto che per anni è stato esodato dalla sfera politica. Allora, si rifletta sul fatto che alla denunciata inconsistenza delle trattative di pace avviate dal Gruppo di Minsk, fa da contraltare la finezza con cui l’Alto Rappresentante dell’Ue per gli affari esteri ha elogiato, qualche tempo fa, l’impegno europeo. Proprio ora che la diplomazia è schernita, perché prigioniera del suo stesso labirinto, risuona in termini più che attuali il messaggio della Baronessa Ashton, convinta che il dialogo nella regione del Nagorno sia un obiettivo che troverà realmente attuazione quando la comunità internazionale nella sua complessità e l’Unione Europea saranno realmente pronte a collaborare.
Vedi alla voce: Autodeterminazione…
Ora, lasciandosi dietro le spalle le battute d’arresto che investono il Gruppo di Minsk, la questione politica dovrebbe essere affrontata sotto un’angolazione umana e antropologica, perché il popolo del Nagorno-Karabakh ha il diritto di vivere sulla propria terra e di conservare la propria identità culturale. È innegabile come il conflitto armeno-azero sia paradigmatico delle difficoltà sottese all’attuazione dell’autodeterminazione, come anche della strumentalizzazione del principio dell’integrità del territorio.
Ciò che necessita di una completa revisione è il modo di concepire l’ordine internazionale, che dovrebbe interpretarsi prioritariamente in chiave umanitaria, perché solo così l’eguaglianza dei popoli e il loro diritto all’autodeterminazione potrebbero assurgere alla dignità di interessi supremi, al di sopra di qualsiasi rivendicazione espansionistica.
Non è sufficiente operare una conversione della realtà sulla scorta degli intenti politici e quasi sempre unidirezionali: la domanda di democrazia potrà essere soddisfatta solo quando qualsiasi popolo avrà il diritto di accedere all’indipendenza interna ed esterna. È chiaro che si tratta di una concezione per il momento più teorica che pratica delle relazioni internazionali, che continuano a difendere gelosamente le proprie prerogative, sebbene dietro lo scudo della sovranità territoriale. Tuttavia, l’esperienza insegna che la violenza anche solo minacciata o il congelamento di un conflitto prima o poi soccomberanno sotto il proprio peso.
È evidente la complessità della questione del Nagorno-Karabakh, per cui profumerebbe di pura utopia l’idea che il presente sia radicalmente dissociato dal passato. Ma non sarebbe poi così illusorio ipotizzare un dialogo tra le fazioni belligeranti supportato da un adeguato sistema di garanzie, che contribuiscano ad un rinnovato ordine internazionale, da imperniarsi sul disarmo e su una politica territoriale tendente alla sicurezza e all’ integrazione. In particolare, non dovrebbero sottovalutarsi gli accordi tendenti a risolvere l’incertezza di sfollati e rifugiati e a favorire la cooperazione tra autorità giudiziarie nella lotta alla criminalità di confine.
Luttine Ilenia Buioni