Turchia il rilancio di Erdoğan
Turchia. Il rilancio di Erdoğan: la trattativa con il PKK e l’apertura al Pacifico
La stampa internazionale sembra aver dimenticato la protesta di #OccupyGeziPark, a pochi giorni dallo sgombero forzato di piazza Taksim, in cui non sono mancati gli scontri tra polizia e manifestanti. Non fa eccezione quella turca, ormai focalizzatasi su un altro problema di portata nazionale: il riacutizzarsi dell’opposizione curda contro l’autoritarismo del governo centrale.
[ad]Nonostante l’apertura dei negoziati, in vista dell’insperata pacificazione tra Ankara e la minoranza curda – perlopiù rappresentata dal PKK di Abdullah Öcalan, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan –, un recente episodio ha di fatto rallentato le trattative tra le due parti. Infatti, lo scorso venerdì a Diyarbakır è stato ucciso dalle forze dell’ordine il diciottenne curdo Medeni Yıldırım, durante una manifestazione antigovernativa contro l’allargamento di un edificio militare. La risposta non si è fatta attendere e infatti, nelle ore successive al decesso del ragazzo, i manifestanti hanno rapito un sergente dell’esercito, rilasciato nella notte. Il Partito della Pace e della Democrazia (BDP) – costola del PKK – ha minacciato di far saltare il tavolo di pace: “Nessuna riappacificazione è possibile senza democrazia e il rispetto dei diritti umani”. Eppure una settimana fa, Öcalan, ormai prigioniero da molti anni, aveva dichiarato dal carcere: “Il processo di soluzione democratica in cui siamo impegnati continua. Siamo entrati nella seconda fase. Ho fatto pervenire allo stato turco le nostre proposte su come potra’ progredire” (Adnkronos). Il secondo round dei colloqui prevede la definizione di un accordo amministrativo per l’autonomia politica delle provincie del cosiddetto Kurdistan, le quali però dovranno garantire il loro incondizionato appoggio al governo centrale. Comunque nei prossimi giorni sono previste altre manifestazioni in difesa dei diritti dei curdi, che potrebbero risvegliare quel malcontento mai sopito del movimento #OccupyGeziPark: si formerebbe un’insolita alleanza contro il primo ministro Erdoğan, visto sempre più come un despota (anche dall’opposizione repubblicana del CHP).
Per ciò che concerne la politica estera, la Turchia ha inaugurato una nuova fase: dopo il posticipo di tre mesi dei negoziati con l’Ue, ieri il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu si è recato in Brunei per partecipare alla riunione dei paesi dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico). Si tratta di un’importante occasione per tessere o stabilizzare i rapporti con i nuovi centri del capitalismo globale, come l’Indonesia – uno dei paesi con il più alto numero di fedeli musulmani – o la Malesia. Durante il forum asiatico, Davutoğlu approfitterà della presenza del Segretario di Stato USA John Kerry per parlare della risoluzione del conflitto siriano. Tra l’altro non sono mancati i rimproveri ai membri permanenti dell’ONU, colpevoli d’ignorare la vicenda. E di recente, un’analista turca della testata on line The Hürriyet Daily News ha ben evidenziato il rischio che Erdoğan vuole evitare a tutti i costi, cioè quello della partecipazione attiva dei curdi siriani alla resistenza contro le truppe lealiste di Assad. Una loro eventuale vittoria da protagonisti, infatti, complicherebbe i rapporti interni sia con il PKK sia con il vicinato.
Mentre sul fronte europeo, il ministro degli Affari Ue Egemen Bağış ha ribadito la volontà del suo governo di portar avanti con convinzione la trattativa verso l’adesione, impegnandosi al più presto ad attuare le riforme necessarie, sebbene soltanto qualche giorno fa il primo ministro turco abbia detto di non riconoscere le decisioni del Parlamento europeo. Il ministro si è poi complimentato con la Croazia – il 28esimo membro dell’Unione –, aggiungendo però che un paragone tra Zagabria e la Turchia è davvero azzardato, perché è come “paragonare le pere alle mele”. “Noi” – ha continuato – “abbiamo una popolazione molto più vasta e l’esercito più potente del continente”.
Dunque, a distanza di qualche giorno dallo sgombero di piazza Taksim, “il sultano” – così Erdoğan è stato soprannominato dall’Economist – sembra aver risolto la situazione. Tuttavia le proteste continuano in tutte le città, con la stessa onda d’urto e poca risonanza mediatica. Stavolta sono stati i curdi e il movimento gay (in questi giorni a Istanbul si è svolto il Gay Pride) ad aver approfittato del risentimento popolare nei confronti del governo per richiedere il rispetto dei diritti umani e maggiori riforme in campo economico. L’opposizione al “sultanato” dell’AKP non è ancora finita.
Fabrizio Neironi