I vertici militari hanno annunciato l’istituzione di una roadmap politica che porterà ad un periodo di transizione seguito da nuove elezioni presidenziali e alla sospensione della Costituzione. Sarà il presidente della Corte Costituzionale, Adli Mansour, ad assumere l’incarico di capo dello Stato ad interim. La Corte definirà poi una nuova legge elettorale per elezioni solo legislative al momento. Inoltre l’esercito ha comunicato ufficialmente a Mohamed Morsi che dalle 19 non e’ piu’ presidente e capo dello Stato. Il presidente Mohamed Morsi ha invece sollecitato “civili e militari a rispettare la legge e la costituzione a non accettare il golpe che riporta indietro l’Egitto”.
La cronostoria
Il 30 giugno 2012, Mohamed Morsi fu salutato come il primo Presidente democraticamente eletto dal popolo egiziano. Il suo nome, benché portato alla vittoria da una forza conservatrice come quella dei Fratelli Musulmani, divenne uno dei sinonimi della Primavera Araba, considerata manifestazione del desidero di libertà da parte di popoli ingiustamente oppressi da dittatori imposti loro da interessi strategici internazionali dei paesi più forti.
A distanza di un anno esatto dall’inizio del suo mandato, Morsi avrebbe probabilmente auspicato un festeggiamento del primo anno di vita della Repubblica Presidenziale egiziana contornato da celebrazioni e discorsi patriottici alla nazione che potessero accrescere la popolarità del nuovo Stato. Il 30 giugno 2013, invece, Morsi ha ricevuto un ultimatum (che, però, ritiene tuttora privo di ufficialità) e, come se si trattasse di un qualsiasi dittatore, ha dovuto arroccarsi assieme ai suoi ultimi sostenitori nelle stanze del potere dopo essere stato privato anche dell’appoggio delle forze armate.
[ad]Sono state proprio le parole del generale Abdul Fatah Saeed Hussein Khalil Al-Sisi, anzi, a dare legittimità alla protesta dei manifestanti di Piazza Tahrir; proprio lui, comandante supremo dell’esercito egiziano nonché Ministro della Difesa del governo Morsi, ha pronunciato la parola ultimatum davanti ad una folla più vasta di quella che si oppose con coraggio al regime del maresciallo Hosni Mubarak, esplosa in un boato di approvazione non appena compresa la notizia.
Tra gli individui della folla che chiede le dimissioni di Morsi è possibile incontrare di tutto, sono presenti tutte le fasce d’età, dai neonati agli anziani, e tutti i gruppi sociali e culturali. Protestano benestanti e poveri, laici e donne col niqab (il velo integrale), copti e musulmani. Tutti vogliono partecipare e dire la propria, tutti vogliono far percepire la propria presenza. In una mano hanno la bandiera egiziana, con l’altra agitano un cartellino rosso, divenuto sinonimo della rivolta. Una settimana fa, la folla protestava insultando gli elicotteri militari di ronda sulla piazza. Dallo scorso 30 giugno, in maniera del tutto surreale, la stessa folla grida, canta e balla inneggiando a quegli stessi militari in volo sulle teste dei suoi componenti.
Per le strade del Cairo, di Alessandria e delle principali città egiziane si sentono slogan contro il Presidente Morsi, sbeffeggiato con ironia dai giovani, che portano con sé dei peluche che assomigliano al maggior esponente del partito dei Fratelli Musulmani, la cui popolarità è a livelli minimi, inferiore addirittura a quella di cui ha goduto Mubarak nei suoi ultimi giorni al potere, del cui regime, Morsi, è stato l’ultimo Primo Ministro, prima di essere eletto Presidente col 51% dei voti il 24 giugno 2012. Evidentemente, il decreto del novembre 2012 con cui Morsi si è conferito un’ampia gamma di poteri per proteggere la rivoluzione da possibili derive ha finito col portare alla lenta concretizzazione delle paure temute dallo stesso Presidente, la cui immagine, già legata ad un partito estremamente conservatore, ha finito con l’identificarsi con un nuovo tipo regime: la tirannia della maggioranza, malattia politica da cui non sono immuni neanche le esemplari democrazie occidentali.
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In queste ore, Morsi sta sperimentando quanto sia difficile amministrare un regime democratico, la più debole delle forme di governo in quanto perennemente esposta ai rischi della demagogia e del populismo proprio perché affidata al voto degli elettori, che spesso si lasciano trascinare dall’opinione degli esponenti di spicco senza informarsi, fenomeno ancora più evidente in periodi di disordine politico.
Con ciò non si intende far passare Morsi per una vittima illustre della cattiva informazione ma soltanto ricordare che non ci sono semplicemente cattivi e buoni: esistono persone con interessi diversi e ciò vale per tutti i paesi che si trovano ora a subire le derive della Primavera Araba.
L’agitazione egiziana dura ormai da lungo tempo e sembra non riuscire ad acquietarsi; in un periodo di tali incertezze, è di conforto poter trovare un leader da seguire, specie se pronuncia parole decise come le seguenti: «Se le richieste del popolo non vengono ascoltate nelle prossime 48 ore, sarà compito delle Forze Armate annunciare una strategia di risoluzione per il futuro». Mentre i tamarrud (i rivoluzionari) si compiacciono dell’alleanza dei militari nella lotta contro Morsi, c’è chi inizia a temere che l’Egitto possa scivolare verso un’oclocrazia, una situazione politica instabile in cui l’avrà vinta la fazione che saprà fare la voce più grossa, il che priverebbe di qualsiasi legittimazione ogni futuro governo, a meno che essa non passi attraverso l’uso della forza e delle armi. Da questo punto di vista, le parole pronunciate dal comandante delle forze armate Abdul Al-Sisi, non sono rincuoranti. Intanto il tempo scorre e l’ultimatum posto a Morsi si avvicina alla scadenza, com’è possibile vedere sul sito http://morsitimer.com .
Giuseppe Luongo