Verso il Mondiale. La Confederations Cup 2013, nona edizione del trofeo, si è chiusa una settimana fa con il quarto successo (terzo consecutivo) da parte dei padroni di casa del Brasile, che in finale hanno letteralmente travolto i campioni d’Europa e del Mondo della Spagna, con un secco 3-0 che ha mostrato al mondo intero le potenzialità del gruppo di Scolari e, in particolare, di quel Neymar che a Barcellona, in coppia con Messi, promette di fare faville.
[ad]Esclusa dai premi individuali (Neymar MVP della competizione, Torres capocannoniere, J. Cesar miglior portiere), l’Italia può comunque essere soddisfatta di un buon terzo posto, ottenuto piegando l’Uruguay alla lotteria dei rigori, dopo un sofferto quanto pirotecnico 2-2 nei 120’, firmato da Astori, Diamanti e una doppietta di Cavani.
Al di là della medaglia di bronzo, si possono trarre 7 interessanti spunti di riflessione, in vista del Mondiale che tra 12 mesi vedrà le grandi nazionali del mondo tornare a sfidarsi in terra brasiliana. Italia compresa, ultime gare di qualificazione permettendo.
1. Il gap con le altre. Brasile, Italia e Spagna erano considerate le tre squadre più forti della Confederations, ed hanno rispettato i pronostici piazzandosi nei primi tre posti del torneo. Tuttavia, le previsioni della vigilia vedevano anche gli azzurri almeno un gradino sotto le altre due. In realtà il gruppo di Prandelli ha confermato quanto di buono già fatto ad Euro 2012, chiuso al secondo posto dietro alla Spagna.
Ciò che fa ben sperare, in chiave futura, sono stati soprattutto gli scontri diretti con le altre due “grandi”, che hanno visto gli azzurri soccombere entrambe le volte sul piano del risultato (sebbene con gli iberici solo ai rigori) ma non su quello del gioco. Restituendo, paradossalmente, sensazioni molto più positive rispetto alla pessima gara contro i più abbordabili giapponesi, o alla comunque buona prestazione fornita contro il modesto Messico.
Se si aggiunge la tradizionale fobia dei tedeschi nei confronti degli azzurri o le difficoltà espresse negli ultimi anni da Francia, Olanda, Argentina, Portogallo ed Inghilterra, l’Italia ha la possibilità di fare il salto di qualità definitivo, presentandosi tra un anno in Brasile come una delle 3-4 favorite per il successo finale.
2. Condizioni ambientali. Le possibilità di crescita degli azzurri dipenderanno anche dalla capacità di far fronte alle ostiche condizioni climatiche brasiliane. Da questo punto di vista, la Confederations 2013 è stata un’ottima esperienza. Umidità ai massimi livelli e lunghi trasferimenti in aereo tra una gara e l’altra sono aspetti che possono logorare ulteriormente le condizioni psicofisiche di una selezione che arriverà all’impegno Mondiale dopo una stagione di club verosimilmente tirata sino alla fine.
Perciò ben venga che l’ecatombe (5 indisponibili per la finalina, più almeno altri 3-4 giocatori affaticati e recuperati solo all’ultimo) si sia manifestata quest’anno e non il prossimo, dando la possibilità allo staff medico ed atletico di prendere appunti in vista dell’impegno che attenderà gli azzurri tra 12 mesi, superiore sia per durata (il Mondiale dura un mese, il doppio della Confederations) che per intensità (arrivare in finale vuol dire disputare ben 7 gare, due in più della Confederations), oltre che per importanza intrinseca.
Non sarebbe male se questa Confederations servisse da lezione anche per la FIFA, convincendola ad una soluzione di compromesso che, tenendo conto sia delle sofferenze dei calciatori che delle esigenze televisive europee, possa ricalibrare in meglio un calendario che ha visto disputare tutte le gare della Confederations in orario locale preserale, con la chicca (in negativo) rappresentata dalla “finalina” tra Italia ed Uruguay, giocata addirittura alle 13 ora locale. Evitare condizioni stile USA ’94, spostando quindi il palinsesto del Mondiale 2014 di almeno un’ora e mezza in avanti (perlomeno per le gare disputate alle 16 ora locale, le 21 in Italia) sarebbe auspicabile.
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3. Un’identità camaleontica. Ai tempi di Parma e Firenze, Prandelli era accusato di essere sin troppo legato al suo ”4-2-3-1 & derivati”.
[ad]Il primo biennio alla guida della Nazionale è stato invece spesso contrassegnato dal 4-3-1-2 a rombo. Con l’esordio ad Euro 2012 è iniziata una fase di sperimentazione che, partendo da 3-5-2, ha portato la selezione azzurra a sapersi destreggiare abilmente tra più moduli.
Alla difesa a 3 vista in Polonia contro Spagna e Croazia ha fatto seguito lo sperimentale 4-3-3 provato a più riprese nell’ultimo anno, per poi giungere alla Confederations, in cui il ct azzurro pare aver accantonato (momentaneamente?) il modulo a due punte. 3-5-2, 3-4-2-1, 4-2-3-1, 4-3-2-1 e il vecchio caro rombo pronto per essere riutilizzato in caso di necessità. La Confederations era anche un’opportunità per sperimentare, e così è stato. E la duttilità mostrata dal gruppo azzurro è un ulteriore motivo di fiducia per i futuri impegni.
4. Una questione di personalità. Su questo aspetto si riscontrano luci ed ombre, che talvolta assumono contorni paradossali. La dimostrazione è data dalle prestazioni di elementi come Candreva, Giaccherini e Diamanti, che giocano con la tranquillità propria dei veterani pur essendo nel giro della Nazionale da appena un paio d’anni. Di riflesso, elementi di assoluto valore tecnico come Aquilani e Montolivo (pupilli, in particolare l’ultimo, di mister Prandelli) continuano ancora a faticare con la maglia azzurra, denotando qualche deficit di attenzione e grinta che rappresenta l’ultimo vero step da superare per consacrarli come grandi calciatori.
Una nota a parte merita De Sciglio: appena 8 presenze in azzurro (di cui ben 4 nella Confederations appena conclusa), 20 anni all’anagrafe, ma ne dimostra almeno 10 in più per la sicurezza con cui agisce su entrambe le corsie laterali di difesa. Lui, Balotelli ed El Shaarawy (nonostante l’ultimo semestre difficile per il piccolo Faraone) sono tre elementi su cui costruire la Nazionale (ed il Milan) del prossimo decennio.
Una cosa è certa: il vero anello di congiunzione tra l’Italia di Prandelli e i vittoriosi azzurri di Lippi è dato dalla capacità di soffrire, in presenza di carenze tecniche e fisiche. Da questo punto di vista, il 4-3 contro il Giappone (con gli azzurri letteralmente in apnea negli ultimi 30 minuti ma capaci del guizzo decisivo in una delle poche sortite offensive) ne rappresenta il simbolo.
5. Rebus difensivi. 10 gol subiti in 5 gare, lotterie dei rigori escluse. Per una nazione simbolo di una tradizione calcistica da sempre improntata sul motto in base al quale “si vince innanzitutto non prendendo gol” non è certo un buon biglietto da visita. D’altronde, l’ultima squadra vincente (l’Italia di Lippi nel 2006) prese appena 2 gol in 7 gare (un rigore di Zidane ed un autogol di Zaccardo), piazzando due pilastri della difesa (Cannavaro e Buffon) nei primi due posti della classifica per il Pallone d’Oro 2006.
Tuttavia, analizzando la dinamica dei gol subiti, si può tirare un sospiro di sollievo. Ben 6 reti subite su 10 sarebbero infatti da considerare “sotto inchiesta”, dal gol in fuorigioco di Dante ai grossolani errori in fase di disimpegno da parte di Barzagli e De Sciglio contro Messico e Giappone (che hanno provocato altrettanti rigori, poi realizzati), senza dimenticare i non perfetti posizionamenti di Buffon sulle punizioni di Neymar e Cavani e la discutibile ribattuta sul tiro di Marcelo, preludio al tap-in di Fred per il 4-2 finale dei verdeoro.
Un livello appena accettabile di attenzione (che si da per scontato in competizioni molto più importanti come il Mondiale) avrebbe quindi potuto ridurre drasticamente il pesante passivo azzurro, attestandolo ai livelli delle migliori difese del torneo. Nessun allarme rosso, dunque.
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6. Qualità e quantità. L’evoluzione dell’ultimo anno ha portato, in particolar modo nella zona nevralgica del campo, a privilegiare elementi dalle spiccate qualità tecniche e propositive (Pirlo, Montolivo, Candreva, Diamanti, Aquilani) a dispetto di elementi di maggior dinamismo e rottura (come potevano essere i vari Nocerino o, tornando ancor più indietro, Gattuso).
[ad]L’assenza di incontristi veri e propri, a cui sono stati preferiti elementi più completi (Marchisio e De Rossi su tutti) è il frutto dell’impronta data da Prandelli al nuovo corso azzurro post Sudafrica 2010, volto a privilegiare il possesso di palla ragionato e la volontà di imporre il proprio gioco rispetto ad una manovra fatta di strappi e ripartenze.
7. Quali nuovi innesti? L’ultima domanda è dunque questa, alla ricerca di un miglioramento del livello complessivo della selezione azzurra. Rispetto ad EURO 2012 c’è stato un notevole turnover, con ben otto cambi (Marchetti, Astori, De Sciglio, Aquilani, Candreva, El Shaarawy, Gilardino e Cerci in luogo di De Sanctis, Ogbonna, Balzaretti, T. Motta, Nocerino, Cassano, Di Natale e Borini) ed un abbassamento dell’età media (che, essendo in entrambe le competizioni di 28.1 anni, in realtà è in diminuzione, considerando che i 15 elementi confermati hanno un anno in più).
Importante in particolar modo l’innesto di 2 classe ’92 come El Shaarawy e De Sciglio, oltre a Balotelli, che è un ’90: tre elementi che in linea teorica potrebbero essere ancora nel giro della nazionale Under 21. Tra un anno dunque il ricambio potrebbe essere minore, in virtù delle buone prestazioni dell’attuale gruppo ed a patto di mantenerle lungo i prossimi 12 mesi.
Tuttavia, se proprio ci sono punti ancora migliorabili, qualche perplessità si può scorgere sugli esterni difensivi, vista l’assenza di un vero mancino di ruolo, le prestazioni non entusiasmanti di Abate e i 31 anni di Maggio. Il ritorno ad alti livelli di un elemento abile su entrambe le fasce come Santon (esploso ad alti livelli nel 2009, anno in cui raggiunse l’apice ottenendo la convocazione per la Confederations in Sudafrica, salvo poi cadere in una profonda crisi da cui ha iniziato a riprendersi nelle ultime due stagioni) può essere importante.
In attacco, Balotelli avrebbe bisogno di una riserva all’altezza. Gilardino, pupillo di Prandelli, viene da un’ottima stagione, è un buon calciatore (campione del mondo 2006, non dimentichiamolo) ed ha disputato un’onesta Confederations. Tuttavia, l’anagrafe (a giorni compirà anche lui 31 anni) potrebbe non giocare a suo favore, in vista del prossimo Mondiale. Mentre gli altri potenziali terminali offensivi da Nazionale (Matri, Pazzini e Quagliarella su tutti) non riescono a trovare una maglia da titolare nemmeno nei loro club, figurarsi un posto in azzurro.
Escludendo gli altri preconvocati per la Confederations esclusi all’ultimo minuto dalla lista finale dei 23 (Agazzi, Antonelli, Ogbonna, Ranocchia, Bonaventura, Poli e Sau) e al netto dei problemi caratteriali di Osvaldo e Cassano e della speranza di rivedere ad alti livelli Giuseppe Rossi, importante può essere il serbatoio dell’attuale Under 21. Sperando in una loro definitiva quanto imminente esplosione, elementi come Gabbiadini ed Insigne (in aggiunta al cavallo di ritorno Borini), oltre a centrocampisti in grado di garantire qualità, quantità e dinamismo come Verratti e Florenzi, possono essere pedine importanti per il futuro (anche a breve termine) della Nazionale maggiore.
Nel frattempo, l’attenzione va focalizzata sul doppio impegno di settembre, contro Bulgaria (il 6) e Repubblica Ceca (il 10), entrambi in casa. Due vittorie garantirebbero il pass per il Brasile con 2 giornate d’anticipo. E, soprattutto, lascerebbero a Prandelli ben 9 mesi di tempo per effettuare gli ultimi decisivi esperimenti.