Euro, tasse, lavoro: nei paesi scandinavi l’attività politica va a rilento, complice la pausa estiva.
[ad]In Svezia si è chiuso il festival di Almedalen, con la contrapposizione sempre più netta tra centrodestra e centrosinistra. In Islanda invece a tenere banco è la decisione del governo di ridurre le tasse sulla pesca.
In Finlandia si torna a parlare di moneta unica.
Qualche giorno fa ha fatto sensazione un’intervista rilasciata da un funzionario della Deutsche Bank al quotidiano svedese Dagens Industri: nel corso del colloquio è stata avanzata l’ipotesi che la Finlandia possa decidere di abbandonare l’euro. È la solita vecchia storia ed è difficile che accada.
Resta il fatto che a Helsinki non sono contenti della piega che ha preso l’esperienza della moneta unica e tutti i partiti devono fare i conti con un malessere diffuso tra la popolazione. Il 25 per cento dei finlandesi crede sia giunto il momento di abbandonare l’euro. E se è vero che la maggioranza continua dunque a pensare che sia il caso di tenersi la moneta unica, solo il 38 per cento è dell’idea che i pro superino i contro.
Questi numeri piacciono ai Veri Finlandesi (il più euroscettico dei partiti a Helsinki) e probabilmente non disturbano il Partito di Centro, che dopo la batosta elettorale di due anni fa ha provato a risalire la china giocando anche alla carta delle critiche all’euro. Aggiungiamoci le bacchettate che ciclicamente il governo riserva alle politiche di Bruxelles e il quadro è completo: tra i finlandesi l’euro non gode di buona fama.
Tutta colpa del livello della discussione? Forse, almeno questa è l’idea di Erkki Liikanen, governatore della Banca Centrale Finlandese, secondo il quale c’è troppo poco interesse per le idee costruttive e troppa attenzione per soluzioni semplicistiche e molto spesso votate all’abbandono del progetto europeo. In pratica, in Finlandia si discute di moneta unica troppo con la pancia e poco con la testa.
Euro a parte, a Helsinki si torna a parlare anche di riforme. Lauri Ihalainen, ministro del Lavoro ha chiesto ai sindacati e ai datori di lavoro di sedere intorno a un tavolo per trovare un accordo sui nuovi contratti. Le trattative erano saltate in primavera, suscitando il fastidio del premier Katainen. Ora, dice Ihalainen, la Finlandia non può permettersi un altro fallimento: senza un accordo sui salari, spiega il ministro, per il governo sarà impossibile attuare le politiche per incentivare la crescita e l’occupazione.
In Islanda, invece, ha sollevato un gran polverone la decisione del governo di centrodestra di abbassare le tasse sulla pesca.
Il via libera è arrivato alla fine di una maratona parlamentare insolita per il piccolo paese nordeuropeo. E la faccenda sembrava non doversi chiudere lì.
Nelle mani del presidente della Repubblica Ólafur Ragnar Grímsson era finita una petizione firmata da 35.000 persone che chiedeva di sottoporre la materia a referendum. Una mossa che era piaciuta al Partito dei Pirati e ai Socialdemocratici, nettamente contrari alla legge varata. “Credo che questo sia un problema rilevante per la nazione”, aveva detto Árni Páll Árnason, leader dei laburisti, “le tante persone che hanno sottoscritto la petizione per chiedere un referendum non possono essere ignorate”.
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[ad]E invece il presidente ha approvato la legge spiegando che la materia non è di quelle che possono essere sottoposte a referendum.
Deluse le opposizioni, delusi i 35.000 firmatari della petizione e delusa probabilmente anche una larga parte di islandesi.
Un sondaggio di fine giugno aveva mostrato come il 70 per cento della popolazione fosse contrario a una sforbiciata fiscale in favore degli armatori impegnati nell’industria ittica, che tra l’altro sono tra i maggiori finanziatori del Partito progressista e del Partito dell’Indipendenza, i due partiti di governo.
In Svezia invece si è concluso il festival di Almedalen, la tradizionale kermesse politica che ogni estate porta sull’isola di Gotland frotte di giornalisti al seguito dei partiti politici che a turno si alternano sul palco.
L’attenzione maggiore s’è concentrata ovviamente sui Moderati del premier Fredrik Reinfeldt e sui socialdemocratici di Stefan Löfven. Ed è toccato proprio al leader laburista dare gli scossoni più forti, colpendo anche l’attuale scenario politico incentrato sulla tradizionale contrapposizione tra il blocco di centrodestra e quello di centrosinistra. Per il leader laburista si deve invece costruire un governo il più forte possibile che sia in grado di fare le cose. Un’apertura a soggetti centristi che fanno parte dell’attuale maggioranza di governo? Forse. È presto per dirlo.
Il premier Reinfeldt ha però tentato di girare queste parole a suo favore, chiedendo in maniera provocatoria se Löfven abbia intenzione di governare insieme ai Democratici Svedesi, il più a destra dei partiti rappresentati in Parlamento e fuori dalla maggioranza di governo. Stefan Löfven non ha fatto passare tempo per dire che non è questa la sua intenzione e che è invece Reinfeldt ad essere spesso ricorso al supporto parlamentare del partito di destra. Fatto sta che pure Reinfeldt da Almedalen ha chiuso le porte ai Democratici Svedesi dicendo che i Moderati non vogliono avere nulla a che fare con loro.
Ma gli attacchi più incisivi sono stati pur i laburisti: “Questi sono tempi nuovi” ha detto, “dovete proporre ricette nuove”: un riferimento a una piattaforma che secondo lui assomiglia molto a quanto visto negli anni precedenti.
Quel che è certo è che i socialdemocratici stanno mettendo il lavoro al centro del proprio programma. È chiaro da mesi, ed è chiaro pure che la scuola è subito dietro. Dall’isola di Gotland, i laburisti hanno proposto lo slogan “classi più piccole, migliore apprendimento”. E cioè: più finanziamento per la scuola, più formazione per gli insegnanti, più strutture.
Ma cosa ci lascia la settimana di Almedalen a parte schermaglie e proclami? Secondo Lo Svenska Dagbladet, ciò che rimane è la sensazione che il 2014 sarà un superanno elettorale. Sia i Moderati che i laburisti hanno parlato di lavoro e questo li avvicina un bel po’, anche se le ricette sono diverse.
Certo, per ora gli svedesi sembrano non riuscire bene a distinguere. Uno studio ha mostrato come il 67 per cento degli elettori vorrebbe capire meglio quali sono le differenze tra le parti. L’anno che viene servirà a chiarire le idee a tutti.