Chi cerca soluzioni alle difficoltà che regnano nel nostro sistema di istruzione media e (soprattutto) superiore parla sempre più spesso, in modo tanto insistente quanto poco specificato, della “selezione meritocratica di docenti e studenti” come del punto di partenza ineludibile per risolvere i problemi. Per gli autori di questi passaggi, probabilmente, la formula appare sufficientemente self-evident da non aver bisogno di ulteriori specificazioni, eppure impegna due concetti almeno a prima vista intimamente correlati, quello di “selezione” e quello di “merito”, entrati prepotentemente nell’uso comune di questi anni e quindi immediatamente percepibili come “familiari”, ma in realtà piuttosto complessi nella loro genesi e nel loro significato effettivo.
[ad]Avendo studiato per qualche anno la storia della Scuola Normale, ed essendoci vissuto dentro per un tempo assai più lungo, mi sono dovuto spesso confrontare con questi due elementi che, insieme al concetto di “eccellenza”, hanno costituito almeno dall’unificazione italiana i tratti distintivi della proposta formativa dell’istituto. E ho imparato che sono in realtà assai più scivolosi di quanto non sembri. In particolare, mi ha sempre piuttosto disturbato l’eccessiva facilità con cui, parlando di questioni formative o professionali, si invocasse senza mezzi termini il criterio del merito, perché sottesi a quel termine si individuano invariabilmente aspetti che con la vita culturale e col lavoro hanno poco a che fare. In primo luogo, quella di merito è una categoria eminentemente morale: merita di ricevere un premio chi si è comportato nel modo giusto per averlo, e viceversa chi si è comportato male merita una punizione. In quest’ottica, studiare in un corso con un certo coefficiente di difficoltà e con certi orientamenti d’insieme rappresenta non un tentativo di adeguare ritmi di formazione e temi di elezione a pregi e difetti della preparazione pregressa, ma semplicemente l’assegnazione di un premio o di una punizione sulla base della valutazione di quanto si è riusciti a combinare. Infatti, e questo è il secondo problema, basare l’assegnazione di compiti e percorsi sulla base della valutazione del merito acquisito presuppone la possibilità non solo di misurarlo in modo oggettivo oltre ogni ragionevole dubbio, ma anche di poter conoscere il valore di ogni persona una volta per tutte, aprendo o chiudendo possibilità di carriera intellettuale e professionale sulla base delle capacità dimostrate in un certo momento.
Questo sistema affascina molto perché è concettualmente molto semplice, e sembra aggirare l’ostacolo dell’andamento a prova-ed-errore, necessario in tutte le cose umane, in ambiti che riguardano la vita delle persone, e in cui quindi i cambiamenti di orientamento determinati da scelte non perfette rendono necessari mutamenti a volte laceranti di prospettive, stili di vita, scelte personali.
Tale fascino ha portato al consolidarsi di un fraintendimento piuttosto curioso. Nel corso degli anni, infatti, l’idea di “meritocrazia”, ovvero della possibilità che la valutazione senza fallo del merito porti alla migliore collocazione possibile degli individui per lo sviluppo ottimale e il pieno sfruttamento delle loro capacità, è diventata quasi un’idea regolativa. L’avvicinamento a tale obiettivo incondizionatamente positivo porterebbe alla graduale soluzione di alcuni problemi che storicamente caratterizzano una società come la nostra: ciò garantirebbe il miglioramento della qualità del capitale umano, che sarebbe meglio allocato di quanto accade in un mercato delle idee e del lavoro chiuso e vischioso, dove scelte fatte magari in fretta e senza costrutto diventano presto trappole irreversibili; garantirebbe l’eguaglianza e la mobilità sociale, tramite l’attribuzione di ruoli di responsabilità senza tenere in considerazione la provenienza; garantirebbe una minore opacità nelle procedure di assegnazione di posti di studio e di lavoro, in un paese dove troppo spesso conoscenze e “spintarelle” di vario tipo hanno un peso determinante. Così la pensa, ad esempio, Roger Abravanel, manager e pubblicista, autore nel 2008 del fortunato pamphlet Meritocrazia, che appunto individuava in un processo simile una possibile svolta per l’Italia.
L’aspetto in parte paradossale è che l’autore cita come precedente illustre della sua ricetta il volume dell’intellettuale laburista Michael Young The Rise of Meritocracy, pubblicato nel 1958. In effetti, è stato soprattutto a partire da questo titolo che il termine “meritrocrazia” è diventato un riferimento positivo nel ripensamento delle pari opportunità sociali. Tuttavia, nel suo racconto con forti venature satiriche Young diede al termine un’accezione eminentemente negativa che è andata presto perduta. Qualche mese fa, ad apertura di un editoriale sul magazine di informazione accademica ROARS, Andrea Ranieri ha sintetizzato al meglio i contenuti fondamentali dell’opera youngiana,
un libro di fantasociologia, in cui, dopo aver all’inizio fatto l’elogio del termine contrapposto alle varie aristocrazie e gerontocrazie dominanti, mostra le assurdità di una società in cui ricchezza e potere vengono distribuiti sulla base dei risultati scolastici e ancor peggio dei quozienti di intelligenza. La casta che ne deriverebbe, secondo Young, sarebbe ancora più chiusa, impermeabile, escludente, delle vecchie caste a cui si contrappone. In particolare la scuola finirebbe per rendere la selezione sempre più precoce concentrando sui pochi le eccellenze educative, ed aumentando a dismisura la selezione e la dispersione di quanti non si adeguano agli standard di intelligenza dagli stessi “intelligenti” definiti.
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Traducendo il tutto nella concreta realtà di tutti i livelli del sistema di formazione italiano, e riprendendo un po’ gli argomenti che avevo sviluppato mesi fa quando si pensava di risolvere qualcuno dei problemi delle scuole istituendo lo “studente dell’anno”, si può dire questo: tirando in ballo la meritocrazia come programma si cerca spesso di ammantare di novità un insieme di meccanismi che in realtà da noi funzionano fin troppo, in breve l’idea di demandare alle scuole il compito quasi esclusivo di verificare formalmente la preparazione degli studenti e di individuare quelli che riescono meglio nelle prove di selezione, in una sorta di scorciatoia che eluda il problema fondamentale, ovvero l’incapacità delle nostre istituzioni scolastiche di offrire a tutti la possibilità di sviluppare le proprie qualità e le proprie attitudini, a tutti i livelli, fino a scaricare sugli studenti che risultano più scadenti la “colpa” di non essere “meritevoli” di sostegno. Invece
il problema – dicevo a suo tempo – non è individuare e premiare lo studente migliore. Il problema è offrire a tutti, soprattutto a chi già riesce bene nei percorsi di studio ordinari, la possibilità di crescere e di sviluppare le proprie attitudini. In questo la scuola italiana è del tutto carente, e non solo per la scarsità di risorse. In generale, l’idea che gli studenti e anche molti docenti hanno della scuola è quella della cancelleria di un ufficio pubblico: io, studente, arrivo al compito e all’interrogazione, e dimostro quanto so, sulla base di un programma concordato che il professore ha precedentemente esposto. Come e perché io sappia quello che so e/o non sappia quello che non so è irrilevante, l’unica cosa che conta è che la scuola approvi il mio studio apponendo sulla mia preparazione un timbro, quello del voto. Quello che manca nella scuola non è tanto un sistema di individuazione e di sanzione di quanto qualcuno ha studiato (o meglio, laddove manca pure quello il caso è proprio disperato), ma la garanzia di un sistema di relazioni e di rapporti tra docenti e discenti che chiarisca ai ragazzi perché e come devono sapere queste cose, che cosa effettivamente possano farci, e che non ultimo si adegui per quanto possibile alle doti e alle peculiarità dei ragazzi offrendo a tutti l’accesso a un novero sempre più ampio e complesso di conoscenze, a prescindere dal punto di partenza.
[ad]In conclusione, come già mi è capitato di accennare analizzando le tare dell’ammissione a numero chiuso “all’italiana”, le procedure di selezione e di valutazione delle qualità e delle attitudini, in primo luogo, possono rappresentare un adeguato punto di arrivo, o meglio momenti di verifica in itinere di cicli di formazione nei quali non ci si limita a dividere gli studenti tra “buoni” e “cattivi”, ma si cerca di mettere a disposizione di ognuno strumenti di conoscenza e di crescita culturale idonei. In questi termini, perde qualunque significato l’idea (anch’essa molto comoda in tempi di crisi e di tagli) per cui la “selezione meritocratica” serva a individuare coloro che hanno capacità sufficienti da giustificare un investimento nella loro formazione, lasciando perdere gli altri perché “inadeguati”. Se in un sistema scolastico e accademico i percorsi “di eccellenza” (diciamo così per brevità) sono necessari per venire incontro a esigenze fondamentali per individui e comunità, essi non sono in nessun caso sufficienti, e non si può pensare al ruolo sociale del sistema scolastico e accademico di un paese sviluppato in termini di esclusione.
Da questo punto di vista può essere interessante prendere in considerazione quella che proprio Abravanel, facendo proprio un sentire piuttosto diffuso, ha definito “la patria della meritocrazia”, ovvero gli USA, con il loro sistema accademico a ingresso selettivo in sedi differenziate in termini di qualità e funzioni. Si veda in particolare il volume di Jerome Karabel, che sotto l’evocativo titolo di The Chosen. The Hidden History of Admission And Exclusion at Harvard, Yale, And Princeton nasconde una approfondita analisi dei criteri di ammissione alle principali università della Ivy League e dei loro mutamenti nel corso degli ultimi 150 anni. In generale, l’autore mostra come tali criteri rappresentassero una sorta di terreno d’incontro e di trattativa degli interessi e delle volontà di un ampio numero di attori sociali e istituzionali: i docenti, che cercavano studenti più “facili” da formare e quindi già avanzati nella preparazione generale e provenienti da istituzioni scolastiche omogenee per programmi e di provata fama; i vertici amministrativi, che dalla carriera dei laureati migliori avrebbero cercato di distillare la reputazione della propria sede accademica; gli ex allievi, che dalla facilità con cui i loro figli possono entrare nell’ateneo spesso fanno dipendere il loro interessamento economico; le fondazioni pubbliche e private che si occupavano di finanziare a fondo perduto o con prestiti le rette, pronte a pagare somme più alte per atenei che garantissero la possibilità dei loro laureati di rendere l’investimento; le istituzioni politiche federali, che facevano dell’ampia rappresentatività nazionale del corpo studentesco un prerequisito per l’accesso a finanziamenti pubblici; le componenti etniche della società, generatrici con le loro frizioni prima di una chiusura verso le minoranze per le tendenze conservative dei “WASPs” e poi dell’esplosione della differenziazione a seguito delle politiche di affirmative action.
Questa disamina è importante anche oggi, dopo che per almeno trent’anni l’idea del “merito” individuale è diventata di gran lunga la parte più importante della complessa equazione sottesa alle ammissioni alla Ivy League, e altre tendenze di segno opposto si sono dissolte.
Infatti ciò, in primo luogo, si deve al fatto che alcune discriminazioni sociali pregresse sono state pazientemente rimesse in discussione e ammorbidite, se non cancellate: un numero sempre crescente di famiglie ha avuto a disposizione risorse da investire nell’istruzione dei figli, una buona preparazione nelle high schools anche pubbliche è diventata più accessibile, si sono imposti sistemi di valutazione delle attitudini intellettuali di base più “neutri” e meno legati a quello che Pierre Bourdieu definiva “sapere ereditato”, ecc.
In secondo luogo, la selettività in entrata dei grandi atenei di punta è resa sostenibile dall’interazione con la grande rete delle teaching universities statali e dei community colleges, che pur coltivando obiettivi diversi, come quelli legati alle necessità dell’istruzione superiore di medio livello per grandi numeri, non rappresentano affatto sedi di “serie B”. La mobilità accademica rende spesso questi atenei il punto di ricezione dei dottori di ricerca e dei giovani studiosi più brillanti preparati dalla Ivy League per una carriera accademica di alto livello. Attraverso reti di collaborazione intrastatali o federali, i loro docenti si offrono come “massa critica” per grandi progetti di ricerca e di diffusione della conoscenza. Investendo con progetti a lungo termine su percorsi di studio o concentrations specifici, atenei periferici possono raggiungere in quei campi livelli di qualità riconosciuta non dissimile da quelle delle sedi di più alto livello, rendendo le “graduatorie” tradizionali sempre aperte.
Infine, e in tutto questo discorso la cosa più importante, college relativamente oscuri spesso accolgono studenti che al momento dell’ammissione non hanno ancora maturato competenze e qualifiche sufficienti al “salto” nei grndi atenei di ricerca, ma che trovando l’ambiente giusto, accedendo a programmi integrativi adeguati e facendosi conoscere con attività extracurricolari di rilievo possono scoprire di non essere definitivamente tagliati fuori dalle sedi “che contano”, e rientrarci per i programmi di formazione culturale e professionale delle graduate schools che rappresentano un volano per le carriere più prestigiose. Richard Nixon, nato da umili origini, si laureò al piccolo ed economico liberal arts college vicino casa, prima di ottenere una ricca borsa di studio per la Law School della Duke University. Ma probabilmente, in questo caso specifico, se le maglie della “meritocrazia” fossero state più strette nell’esclusione precoce di aspiranti studenti di atenei prestigiosi, gli USA e il mondo non avrebbero perso granché…