Oggi si celebra una delle date che, almeno a livello simbolico, meglio rappresentano i caratteri dell’epoca in cui viviamo. Con la Rivoluzione francese, quantomeno in Europa, la civiltà dei diritti si è imposta su quella dei privilegi, l’uguaglianza dei punti di partenza ha soppiantato il ceto, e tutto questo è avvenuto non solo nelle riflessioni teoriche dei philosophes ma anche, per quanto è possibile tradurre in fatti un’idea, sul piano concreto; sebbene siano occorsi decenni e in alcuni casi più di un secolo per sedare le ondate di ritorno del vecchio mondo, da allora nulla è più stato come prima, proprio perché si è smesso di considerare le gerarchie precedentemente imposte come naturali e ineliminabili.
Ma dicevo che la scelta della presa della Bastiglia come data d’inizio della grande rivoluzione è soprattutto simbolica: l’espugnazione di un carcere ormai quasi in disuso, che tratteneva un pugno di persone meno della metà delle quali rinchiuse per motivi politici, poco dovrebbe dirci rispetto a quanto successo prima: rispetto, cioè, a maggio-giugno, quando un gruppo di rappresentanti degli Stati generali, istituzione quasi scomparsa nei secoli d’oro dell’assolutismo ma comunque elemento importante degli assetti tradizionali con cui Luigi XVI voleva risolvere la crisi economica e finanziaria del paese, decise di sovvertire le consuetudini procedurali avocando a sé la rappresentanza del popolo e scardinando quella rappresentanza per ordini che garantiva i privilegi di clero e nobiltà. Perché di privilegi si parlava, più ancora che di sperequazione delle risorse: gli esponenti del Terzo stato, soprattutto quelli presenti in Assemblea, non erano i poveri affamati dalla carestia e dalle vessazioni dei proprietari (che pure premevano su città e campagne, divenendo in breve tempo il carburante della rivoluzione), ma personaggi che potevano tranquillamente essere ricchi quanto e più dei nobili. Il problema era che, per risolvere la crisi in cui la dispendiosa politica interna ed estera degli ultimi monarchi aveva gettato le finanze francesi, occorreva o ridurre la spesa o aumentare le tasse; la spesa era composta in buona parte da appannaggi e vitalizi a cui i ceti privilegiati non volevano rinunciare, mentre le tasse erano pagate quasi solo da una parte specifica di contribuenti, quelli appartenenti al Terzo stato.
[ad]In quest’ottica, assai rilevante diventa anche ciò che accadde dopo il 14 luglio, nella notte del 4 agosto. Di fronte all’espandersi delle sollevazioni nelle campagne alla notizia della vittoriosa rivolta popolare parigina in favore dei costituenti riformatori, l’Assemblea votò l’abrogazione dei privilegi feudali, individuando nella proprietà l’unica forma di possesso di terre e complessi produttivi, e nel lavoro salariato l’unica forma di dipendenza. Niente prestazioni d’opera gratuite al signore locale; niente più rendite determinate dal titolo nobiliare su terreni che appartenevano a qualcun altro; niente più tassazioni radicalmente differenti in base alla forma di possesso e al ceto del proprietario; in generale, niente più residui di una forma arcaica e prestatale di assorbimento del surplus nei confronti di chi un tempo aveva compiti di difesa, governo e gestione di ordine pubblico, e continuava a percepire i contributi connessi pur non avendoli più perché l’amministrazione statale li aveva avocati a sé.
Per uno studioso del ramo, sarebbe affascinante disquisire su quanto questo atto (e la legislazione approvata nei giorni seguenti) abbia contribuito alla definizione di concetti come “feudalesimo” e “ancien régime“, che in pratica non erano precisamente circostanziati fino alla decisione che ne decretava la fine, e quanto nella decisione vi fosse l’interpretazione in un blocco unitario di un processo di sedimentazione millenaria di usi e istituzioni profondamente diversi tra loro nell’origine e nella funzione. Quello che qui mi interessa mettere in evidenza è un’altra cosa: l’abolizione dei privilegi feudali si ebbe con il sostanziale consenso, e forse anche per diretta promozione, dei settori più ricchi della nobiltà che di quei privilegi godeva. Questi ultimi, infatti, erano per lo più proprietari a tutti gli effetti delle terre che gestivano e di cui raccoglievano i frutti, o avevano sostanze sufficienti per il riscatto, e pur di porre fine a fermenti contadini che mettevano a rischio la sicurezza di intere regioni il prezzo da pagare sembrava accettabile.
Come sarebbe accaduto anche nei decenni successivi nei momenti di ridiscussione dei privilegi feudali (basti pensare al 1848) tra le voci più conservatrici figuravano quelle di numerosi nobili poveri, che già avevano ceduto gran parte dei possedimenti, che non potevano pagare braccianti, e che, al di là del maggiore interesse per la considerazione sociale determinata dal loro status di nascita, sulle prestazioni d’opera gratuite e sull’usufrutto di certe aree comuni letteralmente ci campavano.
Ma perché ho scritto questo raccontino, ovviamente semplificato e per certi versi anche impreciso, vista la complessità del tema e la necessità di mettere in evidenza alcuni elementi rispetto ad altri per tirare le somme con un paragone col giorno d’oggi? Di questi tempi è secondo me interessante che anche nell’opinione comune, e non solo tra gli addetti ai lavori, si superi un’immagine della Rivoluzione francese à la Lady Oscar o à la Il Tulipano Nero. Non concentriamoci solo sull’idea un po’ oleografica dello sfarzo della corte contrapposto alla miseria del popolo che non può mangiare pane né tantomeno brioches: la Rivoluzione francese ha origine da un debito fuori controllo che in qualche modo bisogna pagare per evitare il collasso; gli assetti giuridici tradizionali, che un tempo avevano un fondamento sociale e ideale, ora non ce l’hanno più, e non hanno altro effetto che quello di evitare che una parte cospicua di potenziali contribuenti paghi quanto deve, continuando anzi a incrementare con i diritti/privilegi che ha acquisito la spesa pubblica, scaricandone gli oneri sulle spalle di chi a questi privilegi non è introdotto; il godimento dei privilegi non era esclusiva di un ceto di straricchi molto facile da odiare e biasimare, perché molte persone di quei privilegi campavano senza alternative di sopravvivenza, ma questo non rendeva quei privilegi meno inadeguati e non rendeva la necessità di una profonda revisione del sistema di gestione della ricchezza pubblica meno impellente; le istituzioni vigenti hanno cercato di risolvere la questione attraverso i canali tradizionali, ma questi ultimi imponevano il rispetto dello status dei primi due stati, in quanto pienamente acquisito e consustanziale a quell’ordine tradizionale che legittimava lo stato e i poteri sociali operativi; per questa ottusa difesa dell’indifendibile l’ordine tradizionale era diventato un ostacolo alle necessarie modifiche degli assetti economici e dei rapporti tra i cittadini, e per conseguirle lo si è dovuto distruggere. Si spera che non tutti i protagonisti degli ordinamenti politici che si trovano ad affrontare scenari di crisi così profondi si dimostrino ottusi come quelli che risiedevano a Versailles in una calda estate del 1789.