Tra le forme comunicative ed espressive più rilevanti dell’ultimo decennio non si può non catalogare la curiosa usanza del “flash mob” che (per i meno informati di vicende politiche) è un incontro predefinito e predeterminato in cui un gruppo di persone si concentra per fare la stessa cosa sfruttando il valore simbolico del gesto.
Uno dei flash mob più importanti della storia è quello della stazione di Anversa che (per i meno esperti di stati in via di disgregazione nel nome del collasso del debito pubblico europeo) si trova in Belgio. In questo flash mob (tutto tranne che spontaneo) un gruppo di persone si incontra in stazione e incomincia a ballare sulle note di “Do-Re-Mi” sparato a tutto volume dagli altoparlanti della stazione tratto dal film premio Oscar 1965 “Tutti insieme appassionatamente”.
Senz’altro le dimissioni di una delegazione ministeriale da un governo non può collocarsi all’interno della categoria dei flash mob, ma tentativi da “Tutti insieme appassionatamente” stanno emergendo in effetti nella politica italiana. La crisi di governo infatti è sostanzialmente iniziata: col ritiro della delegazione di Fli e di quella dell’Mpa il governo non ha più vincoli che tengano: alla Camera non ha la maggioranza.
Non è una situazione molto dissimile da quella che nel 2008 portò alla caduta del governo Prodi (e ciò dovrebbe far riflettere gli alfieri di questo sistema elettorale) che scaturì formalmente a causa delle dimissione del Guardasigilli Clemente Mastella, il quale con le sue dimissioni, anticipate da quelle del sottosegretario alla difesa Verzaschi, portò all’esclusione dell’Udeur dal governo e la conseguente cessazione del rapporto di fiducia al Senato.
Anche in questo caso il governo ha la maggioranza in un ramo del Parlamento (Senato) e non la dovrebbe ottenere nell’altro (Camera). Questo per vari motivi: sproporzione tra gruppo finiano alla Camera e al Senato, inesistenza di fatto (se non nella componente mista coi sudtirolesi) di un gruppo dell’Udc a Palazzo Madama, ecc.
Alla luce di questo scenario il Cavaliere cerca di giocarsi le sue carte. Ovviamente nell’ottica più personalistica e meno istituzionale possibile.
Domenica, alla convention del Pdl a Milano, Berlusconi ha ricordato come possa essere ancora possibile una maggioranza a lui favorevole in entrambi i rami del Parlamento. Dopo la votazione sulla legge di stabilità (Finanziaria, per i nostalgici) si voterà una mozione di sostegno al governo in Senato e poi la mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni alla Camera.
Berlusconi mira ad ottenere il consenso ovunque (pare sia addirittura disposto di “vendersi all’asta” i posti in esecutivo vacanti….) ma nel caso il voto della Camera fosse negativo si dovrebbe andare direttamente al voto. Niente governi tecnici. Casomai si può ragionare su un rinnovo solamente della Camera dei Deputati.
Perché Berlusconi gioca questa remota carta? Per varie ragioni.
In primo luogo è bene ricordare che nell’attuale legge elettorale il premio di maggioranza alla Camera viene assegnato su base nazionale alla lista o schieramento che ottiene la maggioranza dei voti. Anche relativa. Berlusconi teme, in caso di voto di entrambe le camere, una situazione di stallo al Senato a causa dei premi di maggioranza assegnati a Palazzo Madama su base regionale. In questo caso al Senato la Lega la farebbe da padrona. Alla Camera invece, per quanto la Lega possa aumentare i suoi seggi il Pdl dovrebbe essere in grado di gestire la situazione.
Come possiamo ben cogliere il ragionamento berlusconiano ha anche in questo caso scontati ed espliciti elementi utilitaristici. Praticare una strada non perché è la più corretta o la più funzionale alla vita delle istituzioni. Ma perché mi conviene.
Gli attriti istituzionali su questa proposta berlusconiana sono notevoli. Basti ricordare che la possibilità di sciogliere un solo ramo del Parlamento fu previsto dai padri costituenti in un ottica in cui il mandato del Senato durava sei anni e quello della Camera cinque. Nonostante questa norma per pressi il Presidente della Repubblica ha sempre sciolto, prima di convocare nuove elezioni, entrambi i rami del Parlamento per un rinnovo congiunto delle due assemblee, prassi ripetuta fino alle elezioni del 1958, traghettate dal governo di Adone Zoli, quando fu abolita questa inesplicata differenziazione.
Insomma, possiamo ben dire che la previsione di sciogliere una sola camera è come la neutralità permanente prevista dalla Costituzione della Repubblica Austriaca: una norma superata che è rimasta lì forse per inerzia o forse per il complesso (grazie al cielo!) iter di modifica costituzionale che vede la nostra Carta rientrare nel gruppo delle costituzioni “rigide”.
In questa situazione istituzionalmente ingarbugliata però c’è anche la situazione politica. E quindi il rischio del “Tutti insieme appassionatamente” emerge sempre più forte con la prospettiva (per quanto remota) di esecutivi tecnici retti dal “resto del mondo” o addiritura con futuribili schieramenti elettorali neo-frontisti in chiave antiberlusconiana. Anche nel Pd si parla del resto di estendere la coalizione per le prossime elezioni fino a Fini, passando per Casini e Rutelli.
La partita è senz’altro complessa. Ma occorre una precisazione. I dirigenti del centrosinistra dovranno essere vigili e lungimiranti nel prevedere colpi di coda da parte di Berlusconi.
Bisogna lavorare per un’attenta radiografia della situazione italiana e considerare bene come giocare le carte: puntare su una mega-ammucchiata per necessità pseudoautoritarie di stampo berlusconiano, o mantenere un atteggiamento tattico da situazione politica normale (ma anche in questo caso “pseudo”)?
Altro che stazione di Anversa.