La scorsa settimana abbiamo avuto modo di parlare, anche in termini positivi, dell’affaire Carfagna. Pur con tutte le cautele del caso avevamo elogiato la titolare del dipartimento per le pari opportunità in quanto persona in grado di “stupirci politicamente” e in grado di smarcarsi da un rilevante personaggio che, volente o nolente, appare da sempre come il suo grande sponsor politico.
La conversazione riservata Berlusconi-Carfagna della scorsa settimana ha in gran parte risolto i casi posti dal ministro salernitano; ma, per vedere se ci sia stato un reale accoglimento da parte del premier delle istanze della Carfagna, bisognerà aspettare alcune conseguenze politiche riguardanti la gestione dei rifiuti in Campania (c’è ancora un giallo su questo famoso decreto: le competenze sostanziali a quale ente territoriale verranno assegnate?) e riguardo l’assetto del Pdl in Campania (ad oggi non risultano le dimissioni da Cosentino dal vertice del partito campano).
Ovviamente per una maggiore comprensione del torbido caso bisognerà osservare ancora “dove andrà la politica”, quanta vita avrà questo governo e quanto saranno attrattive le sirene finiane e sudiste (by Miccichè) per la Carfagna.
Ma anche questa volta vogliamo dedicare il nostro spazio al tema cardine della scorsa settimana: l’emancipazione politica.
In un paese storicamente retto da un partito (la Dc) sostanzialmente e formalmente composto da una ramificato sistema correntizio, molto spesso appare difficile smarcarsi o differenziarsi dal proprio mentore o “capo” politico. Atti di questo tipo (in politica si parla di “uccisione dei padri”, non a caso) spesso sono visti come atti di vile tradimento. Ma in certi casi stimolano la fantasia dell’elettore e ne può condizionare le scelte anche nel segreto dell’urna.
Un caso di emancipazione paventato (così come lo era del resto l’affaire Carfagna) stavolta sembra colpire la grande e variegata galassia democratica. E il tutto parte, come spesso accade in Italia, da un’indiscrezione.
Pare infatti che i “nemici storici nel Pd” D’Alema e Veltroni (in rigoroso ordine alfabetico) si siano incontrati a Montecitorio scambiandosi qualche parolina. Di per sé la cosa non deve destare stupore: per quanto tra i due contatti e telefonate non siano per nulla frequenti, nel loro passato c’è una militanza comune decennale che in certi casi può condurre (ma solo in certi casi) a quella che qualcuno definisce “la solidarietà del gruppo dirigente” che molto spesso va oltre e al di sopra di qualsiasi contrapposizione ideologica, tattico-strategica e perfino personale. A tratti si tratta di un mero spirito di conservazione.
Pare quindi che i due sfidanti alla segreteria del Pds nel 1994 abbiamo discusso dell’ipotesi di un governo tecnico comprendente il “Terzo Polo”, cogliendo nell’aspetto centrale della questione (a entrambi sembra irresponsabile andare subito a nuove elezioni) un motivo di convergenza.
Ma non solo. I due pare abbiano discusso anche di Partito Democratico. Criticando per certi aspetti la leadership di Bersani. I problemi sono di varia natura e in certi casi ben diversi a seconda che la diagnosi la faccia il presidente del Copasir oppure l’ex sindaco di Roma. Ad esempio, per D’Alema un motivo d’insoddisfazione nei confronti di Bersani (segretario di cui è stato rilevante sponsor e grande elettore) risiede nella sua difesa dello strumento delle primarie, ma soprattutto nella sua poca incisività nel raggiungimento di un accordo d’alleanza organica con Casini.
Veltroni d’altro canto muove delle critiche a Bersani (come de resto era ovvio e palese nel “documento dei 75 e” nella nascita di Movimento Democratico assieme a Gentiloni e Fioroni), ma partendo dalla colpa bersaniana di aver abdicato alla vocazione maggioritaria (sono stato il primo a parlare di vocazione maggioritaria come di una “forma d’istituto monarchico”) e dal dato politico che vede un Pd non crescere nei consensi (anzi…) nonostante il vistoso calo di popolarità di Berlusconi, della frammentata coalizione di centrodestra e del governo.
Punti estremi: probabilmente se i due avessero discusso di questi temi specifici in quella discussione si sarebbero congedati al più presto relegando ad argomento di discussione il conto per il pagamento dei caffè alla buvette.
Invece, partendo da basi opposte, secondo queste congetture, pare che i due si preoccupino del peso che può aver parte del gruppo dirigente democratico in merito alle nuove candidature (in caso d’elezioni anticipate) per la Camera e per il Senato.
E qui inizia la storia d’emancipazione, e si sposta il soggetto. D’Alema e Veltroni temono la triarchia Bersani-Finocchiaro-Franceschini che proprio sulla delicata partita delle liste dovrebbe avere l’ultima parola.
Sono congetture. Ma cosa se ne deduce? Se ne deduce che l’uomo accusato molto spesso di essere una sorta “di marionetta di D’Alema” (Bersani) e l’uomo che secondo alcuni ha svolto un ruolo di supplenza ed interregno per interposta persona nel nome del credo veltroniano (Franceschini) si siano emancipati dalle ingombranti ombre.
I due (Bersani e Franceschini) non sono proprio due giovincelli. Probabilmente i “rottamatori” rottamerebbero anche loro, seppur non per primi.
Ma da un parziale e intrigante punto di vista, come può la cosa non stimolare simpatia? Come può non portarci alla conclusione che, sotto sotto, c’è speranza per tutti a questo mondo?