Fenomenologia di Silvano Moffa
Le concitate giornate parlamentari del 13 e 14 dicembre hanno avuto un solo e unico protagonista. Un solo volto, una sola faccia, una singola storia politica e tanti tanti denti.
Si tratta dell’ex Presidente della Provincia di Roma Silvano Moffa che ha letteralmente giochicchiato nei due giorni parlamentari mettendo in dubbio la sua disciplina nei confronti del gruppo finiano, di cui fa parte, e di conseguenza la sua stessa appartenenza alla compagine.
I 3 voti di scarto (314 a 311 per il governo) che hanno affossato la mozione di sfiducia contro Berlusconi si sono contraddistinti per esser giunti dalle finiane Siliquini (che già aveva espresso forti critiche al suo capogruppo Bocchino e al Presidente Fini) e Polidori che a sorpresa ha fatto un regalino al Cavaliere (non è che la cosa è reciproca?). Tutto questo nel mare magnum del voto parlamentare dove il dottor Gaglione (ha partecipato all’8,8% delle sedute parlamentari dall’inizio della legislatura) non si è presentato proprio, dove Paolo Guzzanti ha seguito diligentemente le direttive della direzione nazionale del suo Pli e dove il Movimento di Responsabilità Nazionale (o come si chiama) del trio Calearo-Cesario-Scilipoti ha votato compattamente in sostegno dell’attuale esecutivo. Per non parlare poi della pur sempre annunciata astensione del Südtiroler Volkspartei che, come ha fatto ben notare Spinoza.it, si è prontamente svincolato da una tematica di pura politica estera.
In tutto ciò Moffa ha giocato la sua partita e, da buon vecchio missino di Colleferro, ha sparigliato il campo.
Dopo il documento firmato assieme al senatore Pdl Andrea Augello dove si intimava uno stop alla conta parlamentare e ad una riconciliazione tra Berlusconi e Fini (cosa che avrebbe scatenato l’allarmismo dei colonnelli ex An ora nel Pdl) il buon Silvano ha messo in dubbio il suo voto e la sua appartenenza al gruppo di Fli.
Ciò lo ha reso protagonista della giornata di lunedì in cui ha visto circa tre volte Fini e una volta Berlusconi. Il tutto all’insegna di vecchi motti identitari e di un bieco e stucchevole cameratismo d’antan nell’opulenta sala del presidente della commissione Lavoro di Montecitorio.
Tenendo sul lastrico tutti il buon Moffa non si è presentato alla prima chiama del voto di fiducia alla Camera potendo così assistere allo smacco della Polidori, alla conferma della Siliquini e all’affondamento della mozione di sfiducia. Per poi farsi qualche conticino, non entrare in aula nemmeno per votare la sfiducia alla seconda chiama ma chiedere a gran voce le dimissioni del suo capogruppo, il falco Italo Bocchino.
Chissà cosa avrà pensato durante la prima chiama l’ex inquilino di Palazzo Valentini.
Le storie in questi due giorni si sono molto intrecciate e, come spesso accade nel vecchio mondo missino, la persona che più si è avvicinata alla realtà è stato Roberto Menia nel suo discorso alla Camera di lunedì.
Berlusconi, che pubblicamente ha dichiarato di non comprendere affatto i motivi di certa foga passionale rapportata alla politica, ha avuto modo di ascoltare la storia di un uomo che ora, definito dal Pdl come un “traditore” per il suo passaggio al gruppo finiano, anche in passato nella fredda Trieste si trovò il suo volto e il suo indirizzo (di casa, non di posta elettronica) su un giornale. Ma non era “Libero”, bensì una qualche gazzetta dell’estrema sinistra.
Lui, figlio di istriani che lasciarono quella terra, divenuta oramai “oltre-cortina”, per soggiornare presso la libera Italia. Lui, che nel 1989 (e questa è una chicca) si trovava a Timisoara nel bel mezzo del primo nucleo rivoluzionario anti-Ceausescu sorto proprio nella cittadella tran silvana. Incurante del pericolo, il giovane missino, si trovava a fare la rivoluzione col tricolore romeno addosso. Senza quell’assurdo disegnino sul giallo allora in voga.
E quindi Silvano Moffa sulla falsariga avrà ricordato le quindici liste elettorali presentate in suo sostegno nelle epiche elezioni provinciali del 2003, in cui capitolò di fronte al centrosinistra capitanato dall’allora vice-sindaco di Roma Enrico Gasbarra. Capitolò senza però rinunciare all’estremo lusso di presentare, assieme al consueto sostegno delle liste “Forza Roma e “Avanti Lazio” che nel 2005 però tradirono la destra per schierarsi con Marrazzo, il “Movimento Nazionale Monarchico”, la “Lista Moffa” (che fece un discreto risultato 2,2% raddoppiando la civica di Gasbarra “Per una Provincia Capitale”) e la mitica lista de “I Giovani per Moffa” utilizzando il simbolo del trifoglio prima che un grande architetto della politica romana (Alfredo Iorio) utilizzasse questo simbolo per connotare la sua lista ultra-cattolica, ultra-apostolica e ultra-romana.
Fatto sta che l’atteggiamento di Moffa è stato, una volta giunti in Transatlantico, più da ex democristiano che da impavido missino. Ma non è una cosa da poco. Gli impedivi missini, come testimonia la giornata del 14, molto spesso hanno gravi deficit di leadership. Nemmeno sanno tenere unito il proprio gruppo, il proprio drappello da 34 deputati.
Perché a questo si è ridotto Gianfranco Fini: ha subito uno smacco e dovrà assistere o a un caduta del governo fra un mese o due, o ad un ricompattamento del centrodestra senza di lui ma con l’Udc di Casini dentro. Tutto in un quadro in cui qualsiasi governo, seppur instabile, retto da Berlusconi può effettivamente portare ad una modifica della legge elettorale. Ma solo per il Senato, dove il premio di maggioranza potrebbe essere attribuito questa volta sul piano nazionale. Per ottenere la governabilità a tutti i costi, per cercare in qualche modo, pulito o sporco che sia, di rivincere in caso di crollo, questa volta reale, dell’esecutivo.
Insomma: due miserie in un colpo solo.