Il Pd, i risultati e il gioco
Sono passati cinque giorni da quando il Senato ha respinto la mozione di sfiducia individuale che il M5S e Sel avevano presentato contro il vicepresidente del Consiglio Angelino Alfano: cinque giorni in cui la tensione all’interno del Pd si è tutto meno che stemperata. E non si parla tanto delle fibrillazioni a livello del vertice (a raccontare quelle pensa la cronaca politica, che non risparmia dosi quotidiane di Renzi, Boccia, Civati, Speranza, con contorno di Barca e Cuperlo). La vera tensione piddina, quella più grave, si avverte tra una parte consistente degli iscritti (e, ancora di più, tra i simpatizzanti) e una vasta porzione di eletti. Facile da etichettare come “mal di pancia”, si tratta in realtà di un malessere diffuso, quasi cronico, che merita di essere letto più a fondo.
L’episodio di Alfano, in effetti, rappresenta l’esempio più evidente della situazione in cui il Pd è riuscito a trovarsi. Il collega di Termometro Politico Gianluca Borrelli aveva battezzato quello stato come cul-de-sac, azzeccandoci in pieno: «Se [il Pd] vota (come farà) contro la sfiducia ad Alfano verrà attaccato da destra a manca. Se vota per la sfiducia ad Alfano compromette sicuramente la stessa vita dell’esecutivo che sostiene». Ora, non è dato sapere cosa sarebbe accaduto tra elettori e simpatizzanti se il Pd avesse votato la sfiducia (e la mozione sarebbe stata approvata, visti i numeri): forse una parte avrebbe protestato contro una tendenza suicida del partito, che così avrebbe condannato a morte certa l’esecutivo Letta, finendo dritti (Napolitano permettendo) a elezioni che difficilmente avrebbero premiato il Pd.
È quasi certo, però, che un’altra parte non meno consistente avrebbe avuto la tentazione di stappare una bottiglia, brindando a un partito che («finalmente» avrebbero aggiunto) sceglieva di non inchinarsi alla ragion di Stato o di Governo e rifiutava di salvare l’incarico del segretario del Pdl: quella stessa parte che ora, invece, è letteralmente infuriata con i dirigenti del proprio partito che, non paghi di essere nella stessa maggioranza di Gasparri, Cicchitto e Schifani, hanno maturato la scelta di difendere persino il massimo esponente Pdl nel Governo, sia pure con il fine mediato di non far crollare l’esecutivo. Hanno spostato poco le astensioni di Felice Casson, Walter Tocci e altri senatori Pd, così come l’invito di Luigi Zanda ad Alfano (subito respinto al mittente dal Pdl) a non cumulare oltre i ruoli di vicepresidente del Consiglio, ministro dell’interno e segretario di partito.
[ad]In aula Letta ha parlato di imbarazzo per la vicenda kazaka (una vicenda da cui obiettivamente l’Italia esce male, nonostante gli ultimi dettagli sul passaporto falsificato della signora), ma è proprio l’imbarazzo il sentimento sempre più diffuso – quando va bene – tra molti iscritti del Pd, che per anni hanno voluto il Partito democratico, ma sono sempre più insoddisfatti di questo Pd. Non ci si faccia ingannare dai cori «C’è solo un segretario» al passaggio di Bersani alla festa dell’Unità di Roma: l’umore di molti militanti è poco festaiolo, magari i turni in cucina o a spinare birre li faranno lo stesso, ma con un entusiasmo pressoché pari allo zero (e qualcuno comunque si è già sfilato o ci sta pensando). Perché il fatto è che non si sentono più “a casa”, da tempo.