L’ombra lunga del 2010
Abbiamo passato il 2010 a fare i ragionieri. Ad annotare gli umori e le gesta degli Scilipoti, dei Razzi, dei Calearo, dei Moffa. Tenere il pallottoliere: quattro di qua, uno di là, la maggioranza tiene, la maggioranza va. A contare le giravolte di Casini, le piroette di Bersani, gli affondi e le retromarce di Fini.
Abbiamo imputato il tutto alla solita logica del trasformismo politico, alla paura degli onorevoli di perdere la poltrona mista alla bramosia di vedere oscene promesse mutarsi in realtà, che importa se tramite la compravendita. Il tutto secondo l’italianissimo imperativo del “tengo famiglia“. Difficile non portare a casa la sufficienza, se il compitino è indignarsi per le voci di compensi milionari, debiti ripianati e chi più ne ha ne metta in cambio di un voto o di un’adesione al “gruppo di responsabilità” di turno. Dove puntualmente ognuno fa quel che gli pare, ma almeno non lo fa contro il governo.
Ma forse abbiamo sottovalutato la portata complessiva dell’operazione. Persi dietro all’ennesima fotocopia sbiadita di Capezzone e Santanchè, non ci siamo chiesti abbastanza: ma tutto questo, che significa? In altre parole, l’abbiamo messa sul personale. Questo senatore ha cambiato casacca per quel motivo, questo deputato per quell’altro. Ma forse questi gruppi di voltagabbana, e le loro ragioni, messi tutti insieme rivelano un disagio più profondo, una incapacità più profonda di quella del singolo politico di mantenere fede al proprio mandato elettorale o agli ideali del proprio partito.
Proviamo dunque ad allargare lo sguardo. L’Italia dei Valori cade a pezzi, tra la gestione dittatoriale di Di Pietro, i richiami a una questione morale di De Magistris, Sonia Alfano e Giulio Cavalli, gli atti d’accusa di Flores D’Arcais e le arcinote fuoriuscite che hanno salvato il governo Berlusconi. Il Pd non se la passa meglio. Con i veltroniani pronti a fare una corrente in aperto dissidio con il segretario, i popolari di Fioroni sul piede di guerra, i prodiani che hanno dichiarato di valutare il loro appoggio al partito volta per volta, i rottamatori che vorrebbero decapitare la dirigenza e ricostruirla. Per non parlare delle alleanze, che dovrebbero andare dagli ex comunisti agli ex fascisti, realizzando quello che Giorgio Bocca riteneva impossibile da «far ingoiare» ai continuatori dell’antifascismo soltanto all’alba della seconda Repubblica.
E se l’arco parlamentare di centrosinistra piange, quello di centrodestra non ride. Il Pdl ha perso gran parte della sua sterminata maggioranza a causa della conclamata incapacità della propria dirigenza di sembrare una dirigenza e non un picchiatore prendiordini da Berlusconi. Al punto che, dopo una vita di propaganda di se stesso come vincitore senza se e senza ma, perfino il Cavaliere si è visto costretto adammettere che quel partito non è stata poi una grande idea, e che per questo se ne deve cambiare il nome. Come se a quel modo scomparissero la vocazione autoritaria del suo padre-padrone e la quantità indecente di scandali che lo circonda.
Il terzo polo, poi, è diviso su tutto ancora prima di nascere, con l’Udc che sotto le vesti della «responsabilità nazionale» ordisce trame da prima Repubblica, Futuro e Libertà che ha più voci che teste e il fantasma di Montezemolo che per buona parte dell’anno si è divertito a terrorizzare gli astanti. Un quadro incomprensibile, in cui la paradossale conclusione è che l’unico fattore di stabilità è stato rappresentato dalla Lega, vero e proprio ago della bilancia.
Si potrebbe continuare, ma il concetto è chiaro: l’intero sistema politico, così come lo conosciamo, è in disfacimento. E non se ne capisce la ragione. O meglio, l’unica ragione che si intravede è l’incapacità della classe politica nel suo insieme di anteporre l’interesse del Paese al suo proprio. A destra come a sinistra, ciò che abbiamo vissuto quest’anno è stato niente più e niente meno un perpetuo regolamento di conti ad personam. Mancano i disegni politici, mancano le prospettive, i sogni e l’intelligenza per imbastirne. Il che probabilmente rivela una deficienza più profonda della politica: l’incapacità di fare il proprio mestiere. E cioè quello di svolgere il programma sottoscritto con gli elettori, nel rispetto delle regole del gioco democratico. Un compito già di per sé difficile, ma reso immane dal mostro di conflitti istituzionali rappresentato da Berlusconi.
Mancando così di ogni logica e progettualità, è difficile se non impossibile prevedere che cosa ci riserverà il 2011, quale conformazione politica avrà il Paese nel futuro prossimo. Così come è altrettanto difficile, e questo è ben più grave, immaginare quale conformazione politica sarebbe maggiormente desiderabile. Meglio un sistema proporzionale o maggioritario? Meglio il bipolarismo o un quadro più frammentato? Meglio una maggioranza capace di dialogare con l’opposizione o una che tiri diritta per la sua strada? Tutte queste domande sono divenute vuote, prive di significato, di fronte a una politica incapace di mantenere fede alle più elementari delle promesse, non ultima quella di rispettare le regole del gioco. Che sono state costantemente sbeffeggiate, insultate, vilipese proprio da chi dovrebbe rappresentarle.
Sono stati dodici mesi terribili, dunque, soprattutto perché, contrariamente a quanto sostiene il calendario, non sono finiti. E l’ombra che allungano sui prossimi è talmente fitta che le nostre stesse capacità analitiche ne escono ridotte, così come le nostre chance di ottenere la sufficienza come osservatori, quando rapportati a questi parametri. Siamo al punto in cui è auspicabile adoperarci tutti per immaginare un futuro migliore. Pensare di realizzarlo, quando manchi un progetto, è pura utopia.