Perché su Mirafiori si sbaglia prospettiva
Il Pd è un partito plurale. Questo postulato, elevabile alla definizione di “dogma”, appare se non altro una delle poche certezze in questa confusa politica italiana.
Questa pluralità esperienze, di tradizioni e di culture politiche possono però essere declinate in differenti modi, lungo un continuum che va da un’accezione positiva, che trae dalla differenze sfumature dell’ampia galassia del riformismo italiano una forza innovatrice, ad una negativa che rende il partito vittima di interminabili litigi e beghe interne. È evidente quale delle due differenti accezioni stia oggi avendo la meglio.
Nonostante tutto la vicenda legata allo stabilimento Fiati di Mirafiori appare un elemento di discussione di confronto interessante sia per quanto riguarda le nuove relazioni industriali in Italia sia lo stato di salute di del riformismo italiano. La vicenda, se sul fronte sindacale assume le vesti di una partita di Risiko, sul fronte politico ricorda piuttosto una gara di carte. Siamo nella fase del mescolamento del mazzo – e, non so perché, personalmente questa fase del gioco mi ha sempre molto annoiato.
La questione è la seguente: La Fabbrica Italiana Automobili Torino ha grandi aspirazioni. Aspirazioni che però assumono le sembianze di una grande necessità. La maggior industria manifatturiera del nostro paese si trova a competere, come altri suoi concorrenti stranieri, in un mondo sempre più globale in cui se si vuole reggere l’onda d’urto della globalizzazione occorre varcare la soglia per non psicologia delle sei milioni di vetture acquistate. Per farlo si lancia in operazioni come quella di Chrysler che la vede per adesso azionista di maggioranza della casa di Detroit (i sindacati detengono la maggioranza assoluta del pacchetto ma la Fiat aspira alla maggioranza assoluta entro la quotazione in borsa) da anni in crisi e desiderosa di lanciarsi sul mercato.
Assieme alla pista statunitense però la Fiat e Sergio Marchionne si trovano di fronte al tema del costo del lavoro: evidente che sia molto più vantaggioso costruire un certo tipo di vetture in Polonia o in Serbia, dove il costo della manodopera e più basso e le garanzie sindacali per i lavoratori sono meno stringenti. Di fronte a queste due necessità pratiche si pone un tema che ha anche contorni “ideali” legato al mantenimento degli stabilimenti della Fiat in Italia. Insomma, come ha detto il Presidente Elkann, c’è comunque voglia “di mantenere il cuore in Italia”.
Per farlo però la Fiat necessità di una revisione del piano produttivo. Ma anche del piano sindacale. Appunto per questo propone un investimento (700 milioni a Pomigliano d’Arco e un miliardo a Mirafiori) su stabilimenti da tempo falcidiati dalla cassa integrazione.
Bisogna quindi firmare un nuovo contratto che rivede al rialzo i turni legati alla produttività e quindi anche agli straordinari. Come è noto il 23 dicembre il nuovo contratto, che per adesso si pone al di fuori di Confindustria in quanto non in linea col contratto del ’93, è stato firmato da tutte le sigle sindacali tranne la Fiom, che denuncia un attacco ai diritti dei lavoratori tramite questa nuova veste contrattuale.
Tramite non l’accordo del ’93 ma direttamente lo statuto dei lavoratori degli anni ’70, la Fiom si trova dunque esclusa dalla fabbrica insieme alla sua rappresentanza. La rappresentanza sindacale si riduce ai sindacati “lealisti” che hanno sottoscritto l’accordo. Alla luce di questa situazione nasce un dissapore tra la Cgil (che gradirebbe una firma “tecnica” in caso di voto favorevole dei lavoratori al nuovo piano industriale) e la Fiom.
In mezzo la politica. Il sindaco di Torino Chiamparino dichiara i “suoi” due sì: si alla revisione della produttività in fabbrica e sì alla rappresentanza sindacale di tutte le sigle. Praticamente un sì e un no alla proposta Fiat. Stessa posizione di Fassino e D’Alema.
Cofferati, Nerozzi e altri firmano invece un documento in sostegno della Fiom considerando scellerato il contratto. Il segretario dei Giovani Democratici Fausto Raciti dichiara che un attacco ai diritti dei lavoratori in cambio di aumenti di produttività (e aumento dei dividendi) non è la strada giusta. In mezzo il responsabile economico Stefano Fassina, che se la prende con la modalità quasi autoritarie di Sergio Marchionne. Il tutto all’insegna della massima trasversalità.
Ora, il problema secondo me è nel complesso: questa vicenda è vista in chiave del tutto ideologica e come spesso accade questa concezione non aiuta a capire bene lo stato delle cose. Si sta personalizzando la questione sulla figura di Sergio Marchionne, e anche qui si sbaglia.
Il problema è sempre quello, infatti: la globalizzazione ha spostato i livelli di crescita occidentali presso altre aree del globo. Questo ha consentito ad ampie fasce della popolazione globale di elevarsi dalla miseria o di arricchirsi. Per rispondere a questo ineluttabili fenomeno occorre una revisione del sistema lavorativo, previdenziale e produttivo del continente europeo. Un’area geografica da anni contraddistinta da un forte welfare state.
E quindi bisogna dire che un investimento in Italia di un miliardo, oggi come oggi e considerando il livello di scarso fascino imprenditoriale del nostro burocratico paese, non è cosa scontata. E che solo questo è qualcosa di profondamente lodevole. Soprattutto se l’alternativa non è altro che la chiusura e la conseguente dislocazione presso qualche paese in via di sviluppo.
Questo è un ragionamento politico, e un bieco ideologismo non consente alla Fiom di vedere che nel nome della tutela dei lavoratori rischia non solo di danneggiare l’intero impianto (a rischio chiusura) ma anche strutturalmente nel lungo periodo gli interessi dei lavoratori italiani (a meno che l’obiettivo del sindacato di Landini non sia in realtà quello di tutelare gli interessi dei lavoratori serbi!).
Ma al tempo stesso la parte del contratto legata alla rappresentanza sindacale non dovrebbe di per sé farci gridare allo scandalo: si tratta di una norma. Un cavillo, un espediente antiquato in chiave anti-Cobas. Come volete. Ma qui il problema è che Marchionne, per quanto si impegni a metterci dei soldi, ha commesso gravi errori, se mi è concesso di dirlo: non solo dal punto di vista comunicativo (sulla divisione del sindacato ci sarebbe un’altra entità ben più credibile: il ministro Sacconi e il governo tutto dal Patto per l’Italia del 2002 ad oggi) ma anche dal punto di vista politico.
Può sembrare una bestemmia, perché “è l’economia, stupido”. Si, è l’economia. Ma quando si parla di Fiat la vicenda assume i connotato della macroeconomia. E quindi, per quanto sia scorretta questa frase sul piano formale, colui che guida la maggior industria italiana svolge in un certo senso un ruolo informalmente politico o comunque di rilievo equivalente.
Ci si chiede dunque cosa spinge Marchionne, nonostante i soldi che ci dà, ad apparire come il falco ultra-conservatore bastonatore dei sindacati. Li sta praticamente salvando. Ma pare non voglia apparire il “salvatore morale della patria”. Come ha giustamente detto un grande economista premio Nobel, Michael Spence, il vertice della Fiat appare come “indisponente”. E piaccia o no questo non aiuta mai nel mercato. A proposito di rischi fatali. Strano, pensavo che alla scuola McKinsey o da quelle parti insegnassero ai manager un po’ di sano motivazionismo!
Insomma, si tratta di un manager dai grandi meriti. Così come Alessandro Profumo ebbe meriti nello sviluppo e nella crescita (soprattutto ad est) dell’UniCredit. Ma, spiace dirlo, se non riesce a difendersi da solo da attacchi assurdi da parte dei sindacati neo-soreliani, io non me la sento di immolarmi. Almeno io, alla politica e alla comunicazione, ci presto attenzione.
Secondo me su questo, ma solo su questo, l’Avvocato strizzerebbe le orecchie al numero uno dei Lingotto.