L’intenso e fastidioso rumore di fondo di polemiche che, come è ormai tradizione, sta accompagnando il Partito democratico verso un appuntamento importante come l’elezione del proprio segretario al congresso può risultare, per chi non si interessa professionalmente della cronaca di “bassa cucina” della nostra politica, difficile da seguire e soprattutto stucchevole. Eppure può essere riassunto e spiegato in pochi passaggi.
Il PD nasce, nel corso degli anni Duemila, per rispondere a una grave crisi di rappresentatività della forma-partito emersa in tutta la sua gravità nel decennio precedente. Di fronte alla conclamata impossibilità di continuare a proporre, in una società aperta e che avrebbe dovuto mostrarsi ancor più dinamica e flessibile nel futuro, un modello di partecipazione politica basato sui grandi partiti d’integrazione di massa che per decenni, complice la vischiosità di un sistema politico bloccato dalle esigenze di guerra fredda, avevano bloccato la società in un rigido schema in cui erano proprio i loro quadri locali o le organizzazioni di massa ad essi legate a mobilitare l’opinione pubblica per produrre ed esprimere quelle esigenze che poi i loro rappresentanti avrebbero trattato in Parlamento, il PD immaginato alla metà dello scorso decennio si sarebbe dovuto presentare come una sorta di “arena” regolata in cui diverse tendenze e proposte programmatiche si sarebbero confrontate attraverso le primarie, ciascuna possibilmente intercettando e spingendo al supporto e alla mobilitazione settori della società e del corpo elettorale autonomi orientati in favore dei valori fondamentali del progressismo liberale e democratico, per poi ciascuna sostenere in sede elettorale l’elemento risultato vincente.
Il meccanismo è stato proposto in varie occasioni a livello locale mostrando in generale buoni risultati, almeno per uno strumento inedito per l’Italia e difficile da far “digerire” a chi era avvezzo a tutt’altri modelli di partecipazione politica. Spesso, infatti, le primarie hanno individuato candidati vincenti o capaci di ottenere comunque più voti della coalizione d’appartenenza. Per quanto riguarda la dimensione nazionale, le procedure hanno assunto forme più tormentate e meno chiare sul piano della continuità regolamentare e nella definizione dei ruoli per cui si competeva, e in generale si sono dovute scontrare con la discutibile scelta berlusconiana del 2005 di rinunciare, per ragioni essenzialmente contingenti e per un vantaggio essenzialmente personale, di rinunciare al pur sbilenco sistema uninominale che dal 1994 aveva dimostrato di garantire una qualità quantomeno discreta della classe politica e l’inizio di una nuova forma di rappresentanza concentrata più sulle persone e sui territori che sui simboli di lista, e di tornare a uno scrutinio di lista pasticciato e bloccato dalle scelte senza appello dei capi-partito. Un partito come il PD si era costituito proprio come strumento di incontro di movimenti e correnti diverse alla ricerca di rappresentanti e idee progettuali comuni al di là dei particolarismi, ovvero per l’opposto dei partiti chiusi, ristretti, rivolti interamente alla fidelizzazione (in forme identitarie o clienteali) dei propri elettori “storici”, tipici dello scrutinio di lista. Di conseguenza, le tensioni centrifughe agevolate dalla legge elettorale hanno reso al partito la vita costitutivamente difficile. Tuttavia, è significativo che proprio le “primarie nazionali”, nelle varie forme che hanno assunto, abbiano rappresentato i momenti in cui il PD ha mostrato maggiore vitalità e maggiore capacità di aggregare attorno a sé consenso, senza contare il fatto che proprio attraverso la proclamata tendenza all’inclusività e alla partecipazione il partito abbia trovato, pur nelle avversità che ha subito e che spesso si è andato deliberatamente a cercare, un modo per creare e mantenere un proprio consenso, assai meno volatile e meno legato all’impegno personale del leader di quello della propria controparte di centro-destra.
Ora, se si intende proseguire fino in fondo su questo modello di aggregazione (che, almeno nelle intenzioni e sul lungo periodo, dovrebbe coinvolgere l’intero fronte di centro-sinistra in alternativa alle politiche di coalizione), allora si può pensare alla “struttura direttiva” del PD, coi suoi militanti, i suoi quadri locali, la sua dirigenza nazionale, e il suo vertice rappresentato dalla segreteria, essenzialmente come l’organismo incaricato di presiedere al confronto programmatico delle primarie, certamente dandosi una carta dei valori la cui condivisione individua i possibili partecipanti e operando per chiarire i termini della loro convivenza e di possibili mediazioni tra le parti, ma poi limitandosi a organizzarle, controllarne lo svolgimento, e in seguito rappresentare il punto di coordinamento del consenso alla proposta vincente, e soprattutto garantendo la continuità dell’istituzione-partito nelle sue articolazioni dopo che il candidato uscito dalle primarie avrà preso posto nelle istituzioni da vincitore o sarà uscito di scena da sconfitto. In questo senso, una segreteria eletta esclusivamente tra e dai militanti ha piena ragion d’essere, proprio perché ha una funzione limitata, nella vita interna del movimento, all'”arbitraggio” della competizione interna, non alla partecipazione diretta. Giungere a questo sarebbe stato un importante perfezionamento del modello veltrioniano che assimilava vertice del partito e candidatura de facto alla presidenza del Consiglio.
Negli ultimi 4 anni, però, lo sviluppo di questo formato partitico non è proseguito in maniera lineare. Nel 2009, Bersani è stato eletto espressamente per metterlo in naftalina, tornando a un presunto “modello di partito socialdemocratico europeo”, fondato essenzialmente sul recupero di un programma di politiche sociali decisamente spostato sulle posizioni di alcune sigle sindacali, sulla limitazione del target elettorale sui settori culturalmente e identitariamente collocati in modo più stretto a sinistra, sul recupero di un rapporto con la base improntato sulla rigida interconnessione tra organismi di stimolo della mobilitazione e rappresentanti nelle sedi decisionali, e sulla ripresa di una politica di coalizione con i classici protagonisti dell’arena politica repubblicana, in primo luogo i cattolici che avrebbero dovuto ritrovare un referente politico specifico, senza che si potessero formulare previsioni né sull’effettiva possibilità di una sua riorganizzazione, né sul suo possibile successo in termini di consenso. In quel caso, naturalmente, i vertici del partito mantenevano un ruolo di guida ideologica e politica assolutamente essenziale, e l’intero meccanismo del “partito maggioritario” perdeva ogni significato.
Un’idea di partito del genere, ancorata forse all’idealizzazione dei “partiti-chiesa” in cui si era formata, seppure su fronti diversi, tanta parte della classe dirigente del centro-sinistra che aveva visto la “fuga in avanti” del PD come un male necessario, non ha raffronti nell’Europa contemporanea, dei cui sistemi politici e di partito evidentemente si ignorano gli sviluppi occorsi negli ultimi quarant’anni. E infatti il percorso di presunta “normalizzazione” del PD secondo i canoni partitici percepiti come “tradizionali” è fallita, visto che ad ogni passaggio elettorale si sono dovute riesumare, spesso obtorto collo, le primarie, evidentemente così funzionali da essere entrate in pochi anni nelle abitudini politiche dell’elettorato democratico, e lo scorso anno un Bersani che già presentiva la crisi di consenso che lo aveva accompagnato ha, saggiamente, accettato di passare di nuovo da una tornata elettorale interna per vedere legittimato in modo indiscusso il proprio ruolo.
Quello che è avvenuto dopo, con la sostanziale messa in sordina del pur prezioso patrimonio di proposte e di consenso maturato dalla campagna per le primarie nazionali, nell’evidente tendenza di buona parte dell’establishment a considerare quanto avvenuto semplicemente come una fastidiosa formalità da mettere da parte per fare cose più serie, è noto, e i risultati a cui ha condotto sono sotto gli occhi di tutti. Quello che conta ora evidenziare è che l’incertezza mostrata dalla segreteria Bersani sul tema del formato partitico sta avendo conseguenze quasi paragonabili alla sua incapacità di fare campagna elettorale o all’incompetenza con cui si è gestito il passaggio dell’elezione del presidente della Repubblica. Alla vigilia del nuovo congresso del PD, il ruolo che avrà la nuova segreteria, così come le modalità con cui si selezioneranno le “punte” del partito in vista dell’appuntamento elettorale nazionale, sono nel limbo dell’incertezza. Si avrà un segretario che manterrà il proprio ruolo di orientamento politico in un partito ormai palesemente inadeguato a svolgere questo tipo di funzione “pedagogica” in una società che, vivaddio, è più avanzata di quella dei partiti-macchina degli anni Cinquanta, e che all’occorrenza potrà organizzare primarie per rimescolare le carte, avendo però la possibilità di parteciparvi, dopo aver opportunamente ricostruito il partito a propria immagine e somiglianza così da diventare l’unico vincitore legittimato, di fronte a competitori che vincendo dovrebbero comunque fare i conti con quadri organizzativi disponibili se necessario anche al sabotaggio.
In questo contesto acquisiscono pieno significato le perplessità di Matteo Renzi, senza dubbio il leader democratico nazionale dotato del maggiore consenso personale e del profilo più “eleggibile” in una consultazione politica generale, il quale ora si percepisce davvero nel vicolo cieco tra la scelta di competere per la segreteria, e quindi di logorarsi nel necessario lavoro di mediazione tra quelle correnti che dietro al fortunato slogan della “rottamazione” si proponeva, essenzialmente, di limitare e mettere in secondo piano in nome di una migliore funzionalità del partito, e la scelta di partecipare esclusivamente alle primarie per il leader elettorale, rassegnandosi ad avere l’appoggio di un partito pronto a defenestrarlo non appena si presenterà l’occasione. Su questo pesa, naturalmente, anche la sua superficialità sul tema istituzionale, il suo “io mi candido in ogni caso, il regolamento lo lascio fare agli altri”, che sicuramente era molto popolare alle orecchie dei suoi potenziali elettori, nauseati da un dibattito di cui non comprendono immediatamente l’importanza, ma che in realtà celava il tranello di una sita situazione del genere. Ma è ancor più preoccupante il fatto che, tra tutti i potenziali leader di primo piano, Renzi sia l’unico a sentirsi in difficoltà: viene da pensare che gli altri non considerino la razionalità della forma partito così importante, forse in nome di un piccolo cabotaggio che pone l’obiettivo della gestione del consenso fino alla vittoria elettorale al di fuori dei propri orizzonti.