È proprio per questo che abbiamo combattuto una guerra…
Su un tema come le primarie, non solo dal punto di vista politologico ma soprattutto politico, molto spesso si registra un elevato grado di inadeguatezza della dirigenza politica italiana.
Pare infatti che gli elementi essenziali, quelli che definiremmo l’abc della democrazia, come la difesa di un mezzo definito giusto e la coerenza siano vittime di personalismi e della convenienza personale.
Quante volte abbiamo sentito fan del segretario del Pd Bersani dichiarare, riferendosi alla minoranza interna “voi avete voluto le primarie, noi le abbiamo vinte” o, a tratti quasi peggio, quante volte abbiamo sentito echi vendoliani gridare “viva le primarie! Anche quando perdiamo”.
Ebbene concetti di questo tipo con il loro semplicismo rischiano di mandare al macero (udite udite) secoli e secoli di conquiste democratiche.
Ora, sappiamo bene che l’Italia vive da anni una situazione particolare dal punto di vista del sistema politico. Tanto che molto spesso, secondo alcuni osservatori, molti esponenti del centrosinistra sono in difficoltà nei dibattiti televisivi con i rivali del centrodestra…per l’eccessiva generalizzazione e stupidità proprie delle risposte di questi ultimi!
Da qui frasi come “le elezioni le vince sempre Berlusconi” (una visione abbastanza distorta della storia politica italiana, che tra l’altro cozza col concetto della “democrazia dell’alternanza” tanto sbandierata dagli alfieri del bipolarismo) e cose di questo tipo.
Sono queste frasi dunque, queste semplificazioni a ridurre la politica ad uno spettacolo desolante e al tempo stesso più difficile da comprendere.
E dunque nelle frasi già citate sulle primarie va definitivamente a ramengo uno dei cardini del nostro vivere civile e democratico. Quel concetto ben rappresentato da Winston Churchill al suo maggiordomo a seguito della sconfitta del partito conservatore alle elezioni legislative del 1945, quando l’allora primo ministro, dopo che il maggiordomo sbigottito gli riferì della sconfitta elettorale del suo partito, sbottò urlando “È proprio perché questi eventi possano continuare ad accadere che abbiamo combattuto la guerra! Ora passami l’asciugamano!”.
Un’idea irreversibile e tenace della difesa della democrazia e della sua giustezza, che travalica tutto, anche le scorciatoie più appetibili.
Quando un concetto è giusto, quando un’idea ha legittimità politica bisogna sviarla e svincolarla da qualsiasi logica personalistica o da qualsiasi calcolo politico di breve periodo. Se le istituzioni vengono prima delle vicende politiche personali, figuriamoci il concetto di democrazia.
Ed è in questo scenario confuso politicamente che domenica si è votato per le elezioni primarie a Bologna e Napoli.
Il capoluogo emiliano e quello campano dovevano eleggere il candidato a sindaco per il centrosinistra. A Bologna ha avuto la meglio l’ex assessore all’urbanistica della giunta Cofferati, Virginio Merola, con il 58,3% dei voti; mentre a Napoli un voto incerto, che a dir la verità prescinde dalla situazione del Pd partenopeo, e ben 5 candidati (di cui uno ritiratosi due giorni prima della consultazione) hanno visto la vittoria contestata e di misura del parlamentare europeo ed ex-assessore regionale di Bassolino, Andrea Cozzolino.
Entrambi hanno avuto la meglio su Amelia Frascaroli e su Libero Mancuso, candidati civici sostenuti da Nichi Vendola.
Infatti proprio una delle ragioni che ha visto lo stato maggiore democratico tentennare sullo strumento delle primarie di recente è proprio il rischio di essere scavalcati da candidati non facenti parte del principale partito dell’opposizione di centrosinistra. Milano e Giuliano Pisapia docet.
Ma ora con il voto di Bologna e Napoli deve essere ben chiaro un altro aspetto in casa democratica. Un aspetto che non se ne fa nulla delle frasi ad effetto sulle primarie e dell’ignoranza stagnante.
Merola ha vinto a Bologna, Cozzolino a Napoli.
Ora, escludendo un attimo il caso napoletano, non può venire il dubbio che i cittadini scelgano anche per qualità legate al singolo candidato?
Niente di personale contro Stefano Boeri, l’architetto sostenuto dal Pd nella competizione milanese, ma è apparso evidente come nella realtà meneghina il candidato ufficiale del Pd fosse sostenuto fortemente da tutto il partito, per quanto questa decisione fosse stata presa in maniera democratica.
Addirittura all’assemblea nazionale dei coordinatori dei circoli territoriali del Pd di qualche mese fa l’intervento più applaudito fu quello del coordinatore milanese, Cosimo Palazzo, che non si trattenne dal citare una decina di volta Boeri e la speranza della sua vittoria, per quanto il suo intervento fosse obiettivamente notevole.
La vittoria di Pisapia in questi termini non può non aver condotto ad uno shock: le vicende politiche del Pd sono state eccessivamente legate a quelle del suo candidato che, per quanto esterno alla dirigenza Pd milanese, ne ha suo malgrado ereditato tutti i rischi dovuti ad un certo scetticismo dell’opinione pubblica nei confronti dell’identità e dell’azione politica del Partito Democratico.
All’opposto Merola, per quanto effettivamente fosse sostenuto dal Pd, non ha subito una campagna così netta e rumorosa da parte del suo partito pur essendo presumibilmente fiero del sostegno conferitogli dal Pd bolognese.
Questo ha spinto molti elettori (circa 29.000, più di quelli delle primarie del 2008) a non sapere nemmeno se formalmente Merola era sostenuto o no dal suo partito. Probabilmente nemmeno si è posto questo tipo di problema. Lo ha votato semplicemente perché dei tre era il più bravo o comunque il più adatto alla competizione comunale.
Il Pd molto spesso si fa promotore, contro gli slogan leghisti sul falso-federalismo, del “federalismo del Gonfalone”, ovvero un serio autonomismo che dalle differenti realtà comunitarie della nostra penisola trae forza per raggiungere la coesione nazionale e un buon livello di amministrazione locale.
Se il Partito Democratico allora vuole perseguire fino in fondo questa nobile visione politica deve smetterla di marcare ogni vicenda locale come un referendum o un plebiscito di carattere nazionale, come una guerra tra Vendola, Bersani, Veltroni e altri ancora.
In questo caso non si dovrà far altro che designare e scegliere insieme il miglior candidato a seconda delle differenti situazioni. Per amministrare bene e vincere. Non dovrebbe essere questo del resto il compito di una azione politica efficace?