Settimana Scandinava: mentre la Norvegia si prepara ad entrare ufficialmente in campagna elettorale in vista del voto del prossimo 9 settembre, le altre nazioni nord europee fanno i conti con i dati sull’economia.
E non sempre sono numeri incoraggianti.
Se in Danimarca sembra tirare un vento di cauto ottimismo tra la popolazione, in Finlandia la gente non è altrettanto fiduciosa.
In Svezia, poi, una doccia gelata: nel secondo trimestre il Pil è andato sotto zero.
Incertezze ce ne sono anche in Islanda. Solo una decina di giorni fa, Reykjavík incassava il parere positivo dell’agenzia Moody’s.
Oggi cambia l’agenzia e cambia pure il giudizio. Standard & Poor’s infatti ha tagliato l’outlook dell’Islanda, che passa così da BBB stabile a BBB negativo.
Perché? Preoccupa il peso dei debiti delle famiglie e preoccupano le soluzioni che il governo potrebbe adottare per risolvere il problema. Secondo Standard & Poor’s, infatti, una ristrutturazione dei debiti potrebbe creare turbolenze sui mercati.
Cattive notizie arrivano pure dal fronte dell’occupazione. Il centro statistico ha infatti smentito i numeri del Direttorato del Lavoro, che un paio di settimane fa aveva abbassato l’asticella della disoccupazione a un positivissimo 3,9 per cento. In realtà, dice il Centro statistico, le cose stanno diversamente: i senza lavoro a giugno si sono attestati al 6,4 per cento, 1,2 punti in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
In Norvegia questi sono gli ultimi giorni di una pausa estiva atipica, con il voto del 9 settembre in agguato. A partire da lunedì prossimo, il paese entrerà a tutti gli effetti in campagna elettorale e saranno cinque settimane molto calde, con il governo di centrosinistra che tenterà di colmare il distacco nei confronti dei partiti di centrodestra.
Si parte da una situazione ben definita. Un sondaggio pubblicato dal Nationen ribadisce come sia Erna Solberg, leader del partito della Destra, la prima scelta nella testa dei norvegesi: il 41 per cento degli elettori dice di volerla come prossimo primo ministro. Il 29,2 per cento preferirebbero confermare il laburista Jens Stoltenberg. Andando a vedere i sondaggi partito per partito, la storia è la stessa: a Oslo si profila un cambio di governo.
“Siamo contenti” ha detto Jan Tore Sanner, numero due del partito della Destra, “questi numeri dimostrano che otto anni di governo rosso-verde sono abbastanza”. Ma c’è da tenere la guardia alta, ha aggiunto: le percentuali saranno diverse a ridosso delle elezioni, difficile pensare a un distacco così netto. È la stessa prudenza che Solberg va predicando da mesi.
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Nel frattempo pare essersi ricomposta una frattura che era più strategica che reale. Knut Arild Hareide, leader del Partito Popolare Cristiano, fa retromarcia e dichiara di essere pronto a guidare un dicastero, nel caso il suo partito dovesse far parte della prossima squadra di governo.
A inizio maggio aveva chiuso le porte a una ogni ipotesi di incarico ministeriale, suscitando la perplessità dei suoi probabili futuri colleghi di governo ma anche dei membri del suo stesso partito.
In Finlandia il cruccio maggiore resta l’economia. Lo è per i politici, lo è per i cittadini. E ormai da un anno abbondante in molti si domandano se le scelte fatte dall’esecutivo del premier Katainen siano state quelle giuste.
L’Yle lo ha chiesto a un nutrito numero di economisti. Risultato: gli esperti appoggiano le scelte del governo ma ribadiscono la necessità di andare ancora più avanti. Ci vogliono riforme strutturali per aumentare la competitività del paese e favorire la crescita. Occorre tagliare la spesa pubblica, aumentare l’età pensionabile, puntare sulle infrastrutture e sull’edilizia per rimettere in moto il paese.
I cittadini finlandesi però sono molto più cauti. Anzi: dimostrano di avere meno fiducia nel futuro rispetto a un paio di mesi fa. A preoccupare la popolazione sono sempre le stesse cose: disoccupazione, economia che ristagna, risparmi che si assottigliano. E i riflessi di questo pessimismo si vedono pure nella politica, con i partiti di governo che perdono consensi a tutto vantaggio delle opposizioni.
In Danimarca invece la gente guarda al futuro con un filo di ottimismo in più rispetto al passato. Il Centro statistico ha rilevato che a giugno i danesi hanno ricominciato a spendere. La crisi finanziaria preoccupa di meno.
È un buon segno. Più fiducia significa più soldi spesi e più soldi spesi significa più risorse nel motore dell’economia, un motore che in Danimarca è ingolfato da un po’. Segnali di ripresa ce ne erano già stati: il numero di disoccupati, ad esempio, è sceso sotto la soglia dei 150.000 individui. Una vera ripartenza non ci sarà però fin quando l’Europa non riprenderà a crescere: anche la Danimarca, infatti, lega le sue sorti all’andamento del mercato continentale.
Tutt’altra atmosfera in Svezia, dove inaspettatamente il Pil è scivolato al -0,1 per cento nel secondo trimestre di quest’anno. Anche in questo caso è il contesto europeo a influire. L’export svedese infatti è calato nel secondo trimestre di un -0,8 per cento, portando giù il Pil. I primi a essere sorpresi sono stati gli economisti svedesi che si aspettavano una crescita molto modesta ma comunque in territorio positivo.
“La crisi in Europa sta lasciando cicatrici profonde” ha commentato il ministro delle Finanze Anders Borg, aggiungendo che il governo farà di tutto per stimolare l’economia del paese. Quest’anno, ha ricordato l’agenzia di stampa Bloomberg, Stoccolma ha investito 23 miliardi di corone (lo 0,7 per cento del Pil) in infrastrutture, ricerca e sviluppo.