Italiani, belgi o… semplicemente europei?
Mancano tre giorni all’anniversario della tragedia di Marcinelle, cittadina belga nota per aver ospitato la miniera in cui, nel 1956, un incidente gravissimo bruciò le vite di 262 uomini: 136 di loro erano italiani, arrivati lì per lavorare come tanti altri connazionali.
Il nome di Marcinelle, peraltro, è tra i pochi in grado di ricordare a tutt’oggi che, dopo l’ultima guerra, un nutrito gruppo di italiani (140mila tra il 1946 e il 1957) ha lasciato il proprio paese cercando lavoro in Belgio. Partivano in treno per una vita nuova, di certo non facile, come ogni inizio in terra straniera: una terra che, col tempo, è diventata anche la loro, pur tra mille difficoltà.
È proprio la realtà di queste persone, nate italiane ma quasi sconosciute ai loro connazionali, che tre ragazze hanno cercato di indagare con un reportage, dal titolo stimolante: Italians , Belgians or Europeans? Irene Giuntella, Francesca Polistina e Valentina Pavarotti avevano raccolto testimonianze e immagini con la loro telecamera per concludere la loro frequenza alla Scuola di giornalismo europeo di Bruxelles: si sono ritrovate a condensare in un quarto d’ora di filmato una storia ricca di altre storie distese nel tempo, di cui loro stesse si sono sentite parte.
«Arrivate a Bruxelles, siamo entrate in contatto in modo naturale con i vecchi e nuovi emigrati italiani – spiegano –. Era facile riconoscere le loro voci di tutte le generazioni sui mezzi, per strada, oppure trovare qua e là spazi e manifestazioni legati alla loro comunità, tra le più numerose del Belgio». Tutto è partito da quei segni evidenti, testimonianze di vite che attendevano di essere narrate, cariche di speranze da mantenere, difficoltà da superare e memorie da non perdere.
Il racconto delle ragazze non poteva che partire dalla miniera del dolore. La telecamera coglie le “case” che a Marcinelle hanno accolto i minatori e le loro famiglie: un guscio di metallo simile a una grotta, nessun pavimento, solo terra. A dar voce a quelle storie è Urbano Ciacci, scampato per un soffio al disastro («Ero tornato in Italia per sposarmi e ho scelto di aspettare mia moglie per fare insieme il viaggio – racconta – siamo arrivati in Belgio il 9 agosto, un giorno dopo la strage»).
Che la vita non fosse facile lo racconta anche Teresa Butera, presidente del CASI -Università operaia ad Anderlecht. Origini siciliane, arrivata in Belgio negli anni ’70 («La data precisa non la so, non la voglio ricordare») stimolata dai racconti dello zio che viveva lì, appena scesa alla stazione della Gare du midi, dell’Eldorado favoleggiato dai parenti non trovò traccia. Possibilità di crescere culturalmente però ce n’erano, proprio grazie all’Università operaia: si studiava di tutto (dalla storia alla sociologia) a partire da quello che scrivevano i giornali.
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