Il decreto legge

Il decreto-legge: natura, scopo, limiti ed evoluzioni

Il periodo emergenziale ha incrementato la produzione normativa d’urgenza anche per far fronte alla crisi pandemica. Il dibattito politico degli ultimi mesi ha avuto, quindi, ad oggetto lo strumento del decreto-legge, i suoi limiti, le sue – lamentate – criticità ed alcuni aspetti tecnico procedurali che è utile ripercorrere e spiegare. Al di là dei concetti di necessità e urgenza, dell’iter di conversione, dei contenuti minimi (o massimi), il contributo si propone di chiarire elementi propri del decreto-legge, quali la responsabilità delle scelte, cosa un decreto-legge possa (o non possa) fare e, infine, quali profili evolutivi la giurisprudenza costituzionale e la prassi abbiano delineato.

 

Il decreto-legge è lo strumento normativo principale del Governo. In un ordinamento in cui al Parlamento – e solo ad esso – è riconosciuto il potere legislativo, la Costituzione ha previsto uno strumento particolare per assicurare, come previsto dall’articolo 77, al Governo di poter adottare “sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge”.

È bene sottolineare innanzitutto che, nel corso dei lavori che hanno portato alla redazione finale e approvazione della Costituzione, una grande attenzione fu dedicata proprio al decreto-legge e, in generale, alla potestà legislativa del Governo.

Qui è utile far presente che, al netto delle differenti posizioni, i costituenti decisero di prevedere uno specifico articolo ad esso dedicato, nella consapevolezza che un eventuale silenzio della Costituzione avrebbe prodotto più danni che benefici, tenuto conto che sarebbe stato impossibile “negare” l’esistenza di casi di necessità e urgenza, chiudendosi gli occhi per così dire.

Per dirla con le parole di Carlo Esposito, “i provvedimenti di necessità e urgenza del Governo sono un fatto cui la Costituzione vuole dare disciplina, ma non un istituto che da essa tragga nascimento”[1].

 

Diversamente dall’Italia, alcuni Paesi e alcuni ordinamenti (anche estinti) hanno viceversa previsto meccanismi a rilevanza costituzionale volti a riconoscere poteri speciali in capo al Governo.

In tal senso, la nostra Carta costituzionale – nella sua veste di unicum – ha introdotto regole e procedure difficilmente paragonabili ad altri e diversi ordinamenti.

Ogni tentativo di esame comparato del decreto-legge è, quindi, sostanzialmente foriero di errori, teorici e pratici.

 

La definizione offerta dall’articolo 77 mostra alcune delle caratteristiche salienti del decreto-legge: (i) è adottato dal Governo, (ii) in casi di necessità e urgenza, (iii) sotto la sua responsabilità, (iv) è provvisorio e (v) ha forza di legge.

Dalla “adozione” discendono effetti specificamente disciplinati dal nostro ordinamento. Il testo del decreto-legge viene proposto in Consiglio dei Ministri, da uno o più Ministri “proponenti” e dal Presidente del Consiglio stesso e approvato in quella sede. Il testo, poi, segue un iter particolarmente contingentato: viene trasmesso al Quirinale per la firma del Capo dello Stato, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e, “il giorno stesso”, presentato alle Camere per la sua conversione entro sessanta giorni.

 

Venendo agli elementi di necessità e urgenza, non si può che tenere in considerazione il tenore letterale dell’articolo 77 e degli altri articoli della Costituzione, ove non è possibile leggere un elenco esaustivo di casi in cui al Governo è riconosciuta la facoltà di intervenire normativamente.

A bene vedere, e come i costituenti avevano ben chiaro, non esiste interesse perseguito dallo Stato che non possa – a seconda delle vicissitudini dei tempi – perseguito in maniera necessaria e urgente e, quindi, con tempistiche diverse da quelle necessarie ad un normale iter parlamentare di esame e approvazione di una legge.

La conseguenza è che tutti i fini dello Stato (necessità assoluta) o del Governo (necessità relativa) possono, astrattamente, essere raggiunti tramite decreto-legge, a meno che non sia possibile (e qui, in diversa accezione) “necessario” procedervi con legge ordinaria.

 

Necessario riguarda la circostanza per cui, per il raggiungimento di un determinato scopo (introdurre una regola, una norma, una prescrizione), è inevitabile l’utilizzo dello strumento del decreto-legge.

È, quindi, assolutamente necessario che con decreto-legge, ad esempio, si abiliti alla professione il laureato in medicina, a causa della carenza di medici nel periodo di una pandemia (DL 18/2020).

Può essere inteso come relativamente necessario modificare la normativa in materia di abuso d’ufficio, perché convinti che lo spettro dell’azione penale impedisca ai grandi cantieri di essere avviati (DL 76/2020).

 

Più semplice appare la definizione di urgenza, anche perché il fatto stesso che il decreto-legge possa essere convertito o meno in legge entro un tempo determinato (pena la decadenza di tutti gli effetti) aiuta a comprendere come il concetto di urgenza debba essere inteso in senso temporale.

Farlo adesso perché serve adesso, e non c’è il tempo materiale per attendere che le due Camere approvino un testo identico, è il principio alla base – ad esempio – del decreto-legge che autorizza il cittadino a inserire nella buca dell’urna elettorale le schede, onde evitare il contatto e la possibile trasmissione di virus Covid (DL 103/2020, approvato il 14 agosto per il voto del 20-21 settembre).

Urgente è la proroga di termini in scadenza, spina dorsale dei cosiddetti “decreti milleproroghe” di dicembre.

 

La natura collegiale del Consiglio dei Ministri si lega a doppio filo con il concetto di “responsabilità”. È il Governo – generalmente inteso e nella accezione “ampia”, che comprende anche il Presidente della Repubblica – ad essere responsabile delle norme, quanto meno sino al momento della conversione in legge da parte del Parlamento.

E non potrebbe essere diversamente. Prima di tutto, per assicurare l’aderenza dell’ordinamento all’articolo 1 della Costituzione, tutelando quindi il precipitato logico del principio in virtù del quale solo il Parlamento è responsabile (politicamente) di fronte ai cittadini delle leggi approvate. Ogni diverso atto, se costituzionalmente previsto, deve avere un altro e diverso responsabile.

In secondo luogo, per la natura stessa dei decreti-legge.

Si tratta di “provvedimenti” che – se rispettato il dettato costituzionale – hanno necessità di essere trasformati formalmente in altro (in legge), ma non per questo sono illegittimi.

Provengono, insomma, da una autorità che ha la possibilità pratica di provvedere in conseguenza della sua posizione e dei suoi poteri (il Governo), ma necessitano comunque di una “sanatoria” (il voto e la conversione in legge da parte del Parlamento).

 

Come già anticipato, il decreto-legge è provvisorio.

Le disposizioni che contiene, se non convertite entro 60 giorni, decadono sin dal giorno in cui erano entrate in vigore, fatti salvi gli effetti che hanno prodotto.

Questa definizione, parzialmente costruita dalla giurisprudenza costituzionale, è il punto di caduta tra opposte esigenze: da un lato, (i) assicurarsi che, ove il Parlamento non intenda convertire in legge, al decreto-legge venga tolto ogni potere dispositivo, sempre in ragione di quel ruolo di garante supremo delle Camere, e dall’altro, (ii) assicurare un principio cardine degli ordinamenti moderni, e cioè la certezza del diritto.

Se agisco in un determinato tempo, e la mia azione produce effetti che vanno oltre i 60 giorni di vigenza del decreto, è ben possibile rimuovere la norma alla base, ma non è possibile cancellare con un colpo di spugna gli effetti prodotti sui rapporti giuridici.

 

Sul perché della provvisorietà, al netto della ovvia considerazione circa il carattere di limite ad un potere, è utile far presente che l’indeterminatezza costituisce il vero strumento di controllo parlamentare sull’attività governativa.

La mancata conversione di un decreto-legge è il messaggio del Parlamento al Governo circa la non necessità di dare corso ad una norma, che magari era stata necessaria e urgente.

 

A corollario di questo sta l’ultimo comma dell’articolo 77, ove prevede che le Camere possano “regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”. Un richiamo, sostanziale, di responsabilità al Parlamento, che non può disinteressarsi di cosa è accaduto e come regolarlo.

 

Forza di legge.

Questo è, forse, il tema che maggiormente ricorre nel dibattito politico, non solo recente.

La forza di una legge consiste, tecnicamente, nella sua esecutorietà e nella sua applicabilità da parte dei giudici.

Parimenti, ogni legge ha una sua forza attiva (modificare, abrogare, sopprimere) e passiva (non essere modificata, non essere abrogata, non essere soppressa).

La formulazione dell’articolo 77, nella sua chiarezza, offre – anche in considerazione delle altre caratteristiche del decreto-legge – una chiave di lettura.

Se al primo comma si fa esplicitamente riferimento alla “legge ordinaria”, il secondo comma parla di sola “legge”. O meglio: di “provvedimenti provvisori con forza di legge”.

Tenuto conto della necessità di dare riconoscimento ad un fatto reale (intervento necessario e urgente, non prevedibile e non affrontabile con lo strumento della ordinaria legislazione), sarebbe stato infatti illogico ridurre alla sola “legge ordinaria” la forza del decreto-legge.

Ne deriva che il limite, più o meno chiaro, della forza di legge del decreto-legge consiste nella costituzione medesima, o meglio nella struttura costituzionale dello Stato, e nei principi costituzionali, che non possono essere modificati se non con una legge c.d. costituzionale.

Fuori da questo perimetro, non esistono limiti – scritti nell’articolo 77 – a quanto il Governo possa, sempre se necessario e urgente – disporre con proprio provvedimento (temporaneo e soggetto alla conversione parlamentare).

Al netto, ovviamente, di un successivo, ed eventuale, giudizio della Corte Costituzionale, chiamata a verificare la stretta aderenza del provvedimento governativo ai limiti dell’articolo 77.

 

La formulazione dell’articolo 77 costituisce la base sulla quale si sono costruite molte pronunce della Corte Costituzionale che hanno contribuito a delineare un quadro di legittimità del decreto-legge.

 

Tra i molti aspetti chiariti dalla Corte, ve ne sono alcuni che – nel dibattito – appaiono particolarmente rilevanti.

Il primo di questi è la cosiddetta omogeneità di materia, ossia quella stretta aderenza tra titolo e contenuto dei decreti.

E così, nel recente passato e a titolo esemplificativo, abbiamo potuto osservare decreti-legge recanti “misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, dove norme di semplificazione in materia di appalti e procedimenti sono seguite da disposizioni volte ad assicurare l’adozione di protocolli digitali nella PA e applicazione uniforme della identicità digitale per professionisti, cittadini e imprese.

 

Ancora, decreti-legge recanti “misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, articolati per titoli che intervengono sulle aree identificate dal titolo stesso del decreto.

Il legame tra titolo e contenuto, se può sembrare ovvio e privo di criticità, costituisce un elemento fondamentale, ad esempio, nel caso in cui per via emendativa si intenda ampliare la portata di un originario decreto, dovendo per l’effetto intervenire sul titolo stesso per inserire temi e ambiti di applicazione non originariamente contemplati.

 

Altro tema di particolare rilevanza è quello della ammissibilità degli emendamenti parlamentari in sede conversione e, quindi, coerenza tra legge di conversione e originario decreto.

Pur nella consapevolezza che il Parlamento, sovrano, decide se e come convertire in legge un decreto-legge, la giurisprudenza ha chiarito come e quanto la modificazione parlamentare possa incidere.

L’esempio principe è quello della incostituzionalità della c.d. “legge Fini-Giovanardi”, ossia la revisione dell’impianto normativo concernente le droghe.

Con emendamento parlamentare si trasformò il decreto-legge recante “misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché’ la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi” in un provvedimento volto, anche, a modificare il “testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”.

Tra il decreto-legge e la legge di conversione deve esistere un “necessario legame logico-giuridico”, tale da consentire “di mantenere entro la cornice costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento della funzione legislativa” (Corte Costituzionale, Sentenza n. 32, 12 – 25 febbraio 2014).

 

Da ultimo, la reiterazione.

Specie nel corso della c.d. “prima Repubblica”, era prassi la riproposizione ciclica di decreti-legge identici, anche al fine di superare strumenti parlamentari volti ad ostacolare la formazione di talune leggi.

Questa prassi, quella della reiterazione dei decreti-legge appunto, ha subito una censura netta da parte della Corte Costituzionale, nel presupposto che la riproposizione di un identico provvedimento al fine di aggirare il vaglio parlamentare, non potesse ritenersi legittima nella misura in cui pareva evidente la mancanza di requisiti di necessità e urgenza (intesi nel senso di “unico atto idoneo a raggiungere un determinato obbiettivo”).

 

La produzione normativa del periodo febbraio – agosto 2020 ha rinnovato un dibattito già noto in merito al decreto-legge, strumento costituzionalmente previsto e normato.

Come tutti gli strumenti, inidoneo a far vacillare o attentare – di per sé – l’impianto dell’ordinamento.

Come tutti gli strumenti, idoneo ad usare usato e strumentalizzato.

Come ogni previsione costituzionale, tuttavia ed in conclusione, dotato di sistemi di controllo e – ove necessario – correzione.

 

 


[1] Diritto costituzionale vivente – Capo dello Stato ed altri Saggi, Giuffrè editore, Milano – 1992. In capitolo IV, Decreto-legge, pag. 189.