Un motto fondamentale per i pubblicitari? “Puoi dire la cosa giusta su un prodotto e nessuno ti ascolterà; devi dirla in modo che la gente la senta realmente dentro di sé; perché se non se la sente veramente dentro, allora sicuramente non succederà nulla”.
In queste parole troviamo una sorta di summa del pensiero di William “Bill” Bernbach (New York, 13 agosto 1911 – New York, 2 ottobre 1982), pubblicitario che animò la cosiddetta seconda rivoluzione creativa dell’advertising made in USA negli anni Cinquanta.
Advertising Age, una delle più influenti riviste di settore a livello mondiale, ha definito Bernbach la figura più importante nella storia della pubblicità del XX secolo. A lui s’ispira Bill, testata a cura di Tita srl, che, come si legge sul sito “non si rivolge solo alla gente del mestiere. Nasce per raccontare la ricchezza dell’advertising anche attraverso i suoi rapporti con la cultura, la società, l’economia, la politica”. Per comprendere lo spirito che anima la rivista è necessario prima di tutto fare un passo indietro, ricostruendo i tratti fondamentali del percorso di Bernbach.
Cosa ha reso praticamente indelebile e decisivo il suo contributo in materia di pubblicità? Il suo sguardo visionario e coraggioso, che rifiutava di seguire pedissequamente i dettami connessi alla teoria comunicativa dell’Ago Ipodermico (Bullet Theory), all’epoca largamente condivisa.
In base a essa, il messaggio veicolato da un mezzo di comunicazione di massa raggiunge ciascun individuo, alla stregua di un proiettile, quasi impallinandolo. Come una sostanza inoculata direttamente nel sangue, il messaggio agisce sul singolo senza che quest’ultimo abbia possibilità alcuna di opporsi a esso, in una condizione di totale passività.
Dal canto suo, Bernbach sosteneva invece che “la verità non può essere tale fino a quando la gente non crede effettivamente in te. E non può credere in te se non sa ciò che stai dicendo. E non sa ciò che stai dicendo se non ti ascolta. E certo non ti ascolterà se non riuscirai a essere interessante. E non sarai interessante finché non dirai le cose con fantasia, originalità e freschezza”.
Bernbach ideò un metodo di lavoro definito Negative Approach, che poneva l’accento su aspetti apparentemente critici e/o lacunosi del prodotto, rovesciandone la visione. Così, per “aggredire” un mercato come quello statunitense in cui le automobili di grandi dimensioni erano un vero e proprio status symbol, lui pensò bene di suggerire al consumatore di “pensare in piccolo” (un’auto di dimensioni ridotte comporta, tra i tanti vantaggi, un prezzo più basso, consumi contenuti)… e acquistare il maggiolone Volkswagen.
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Come promuovere un’azienda di noleggio di automobili (nel caso specifico, Avis) perennemente seconda rispetto alla rivale leader di settore? Ricordando ai potenziali clienti che, chi deve tenere il passo della concorrenza per restare sul mercato, lavora più duramente (“We try harder”).
Chi non può concedersi di restare seduto sugli allori, s’impegna costantemente e cura con meticolosità i servizi offerti, in quanto non può permettersi di perdere il contatto con le esigenze dei clienti. Insieme a esse, molte altre campagne di pubblicità ideate da Bernbach hanno “dettato il ritmo”, imponendosi per creatività e incisività.
“Posso mettere su una pagina l’immagine di un uomo che piange ed è solo l’immagine di un uomo che piange. Oppure posso mettere la stessa immagine in modo che faccia venire da piangere. La differenza sta nell’abilità creativa; quella cosa intangibile di cui il mondo degli affari diffida”, dichiarava Bernbach.
Specularmente il team del magazine Bill accoglie la sfida di raccontare la galassia – a volte nebulosa, a volte complessa – dell’advertising non solo ricostruendo quello che è lo stato dell’arte, ma anche attraverso le “invasioni di campo” che la pubblicità compie, o che “subisce”. Un esempio tra i tanti possibili, l’intervista a Roberto Saviano sul concetto di merce, su come i suoi scritti siano spesso incentrati proprio sul tentativo di (ri)costruire una sorta di fenomenologia della stessa.
“La merce mi è sembrata innanzitutto un elemento di sintesi. Nella complessità del vivere, una lattina o una penna sono la sintesi di un percorso infinito, che è culturale, è chimico … il tutto, sintetizzato poi da un comun denominatore: ISO. Ossia i container che le trasportano, quelli che tutti insieme sembrano mattoncini Lego. Non c’è cosa al mondo che non stia lì dentro – spiega lo scrittore -. Immagino che per molti il vero emblema della contemporaneità possa essere la pendrive, oppure il touchscreen. Per me è il container ISO, con il suo calcolo scientifico, con il suo massimo volume disponibile nel minor spazio. E’ così che la merce è diventata un mio strumento letterario”.
Il tratto peculiare del magazine si ritrova anche nelle sue rubriche: Piano B (“cosa fanno i creativi nel tempo libero?”), ad esempio, racconta, tra le tante, la storia di Paola Morabito, copywriter che unisce al talento nel maneggiare le parole la capacità di creare e combinare sapori.
Viaggio in Italia raccoglie numerose storie di creatività made in Italy, da Palermo a Verona passando per Bologna: insomma, l’advertising non nasce e muore a Milano. Mosca cieca analizza invece, con arguzia e ironia, gli strafalcioni di cui spesso sono disseminati gli annunci di lavoro rivolti ai creativi pubblicitari.
“Per quanto abile tu possa essere, non potrai mai inventare per il tuo prodotto un vantaggio che non esiste, e se lo fai, ed è soltanto una trovata, non starà comunque in piedi”, sosteneva Bernbach: uno dei principali punti di forza della rivista Bill è proprio il fatto di riuscire a rendere appetibile e coinvolgente il racconto dei vari spaccati del mondo dell’advertising anche per i non pubblicitari.
Un modo, questo, per acquistare una nuova consapevolezza del contesto comunicativo in cui siamo inseriti e, perché no, costruire nuove competenze nell’utilizzo degli strumenti che lo caratterizzano.