Nelle prime ore di martedì scorso, le dichiarazioni erano soprattutto speranzose: per i fedelissimi di Silvio Berlusconi, la nota di Giorgio Napolitano era soddisfacente perché riconosceva il ruolo del leader e del Pdl e sembrava aprire a una soluzione.
Giusto la mattina dopo, però, qualcuno ha sentito il bisogno di dire che dal Quirinale ci si attendeva di più sul “caso Berlusconi”.
Col tempo, la pattuglia dei “quidpluristi” si è ingrossata: oggi si sono accodati Formigoni, Cicchitto, Polverini, Biancofiore e Leone, fino al fiele della Santanché che bolla la nota di Napolitano come “irricevibile”. Anche il capogruppo al Senato Renato Schifani oggi ha ammesso che “Nel messaggio del Capo dello stato non ho trovato quello che avevamo chiesto. Le posizioni del Capo dello Stato si rispettano, ma ci aspettavamo di più“. Il fatto è che quel “di più” che il Pdl chiede a gran voce, il Presidente non può farlo.
Cos’ha detto dunque Napolitano? Innanzitutto ha chiarito una volta di più che, nel suo modo (legittimo) di interpretare il ruolo presidenziale, il potere di scioglimento delle Camere spetta esclusivamente a lui. Nessun ruolo avrebbe il governo, nemmeno in “compartecipazione” al potere (anche se vari costituzionalisti immaginano proprio quella struttura): il governo in carica, insediato da poco più di cento giorni, dovrebbe pensare a durare, mentre la scelta di concludere anzitempo la legislatura è (parole di Napolitano di nove mesi fa) «prerogativa propria ed esclusiva del Presidente della Repubblica».
Morale, le elezioni sono “impraticabili”, punto. Pure se si accordassero Pdl e altre forze per ottenerle. Ciòè, magari alla fine Napolitano non riuscirebbe a dare l’incarico di governo e le Camere dovrebbe scioglierle comunque, ma sarebbe una sua decisione. Del resto, sono stati proprio i partiti maggiori, in aprile, in un momento di crisi del sistema, a pregare l’inquilino uscente del Colle perché non traslocasse e si sciroppasse altri sette anni al Quirinale. Napolitano è rimasto e ora ha tutti i titoli per pretendere che chi lo ha eletto non lo costringa a sciogliere un Parlamento nuovo nuovo. E, soprattutto, a scioglierlo prima che sia approvata una nuova legge elettorale o, per lo meno, siano corretti i difetti più pesanti che rischiano di far saltare quella attuale.
Il Presidente si è poi concentrato sulla grazia: altro potere che (lo ha detto la Consulta nel 2006) spetta solo a lui, senza che il ministro della giustizia possa opporsi. Per un istituto così antico, è normale che Napolitano si sia richiamato soprattutto alla prassi e ai precedenti, soprattutto quelli più recenti. Che dicono, ad esempio, che di norma l’iter per ottenere la grazia non può iniziare senza la domanda proposta dal condannato o dagli aventi diritto, anche se l’art. 681 c.p.p. prevede che si possa procedere d’ufficio: l’idea di avere “condannati più eguali di altri” per aver avuto l’attenzione del Quirinale è sgradevole.
E’ vero che Napolitano, in cinque casi delle 23 grazie concesse (a fronte di 2461 domande ricevute), ha proceduto d’ufficio, ma erano casi particolari (hanno riguardato cittadini austriaci che negli anni ’60 avevano commesso attentati senza provocare morti, con la pena detentiva che si era prescritta). Forse però il Presidente avverte che questo caso è ancora più delicato e che, procedendo d’ufficio, “a furor di parte del popolo”, rischierebbe di guastare il valore umanitario della grazia e il proprio ruolo di organo super partes.
Napolitano definisce il vaglio della richiesta di grazia come «esame obbiettivo e rigoroso – sulla base dell’istruttoria condotta dal ministro della Giustizia – per verificare se emergano valutazioni e sussistano condizioni» per concedere clemenza, senza discutere «la sostanza e la legittimità» della sentenza.
Un esame obiettivo prevede che il Presidente possa tenere conto di ingiustizie palesi (ma davvero palesi) commesse nel processo e mai riparate. Un esame rigoroso, invece, prevede che si verifichi ogni aspetto della domanda, soprattutto quelli richiesti dal carattere umanitario e “premiale” della grazia: tra questi, anche la tendenziale assenza di altri procedimenti penali in corso (magari punteggiati di condanne), soprattutto se quei processi riguardano fatti successivi a quelli alla base della condanna per cui si chiede clemenza.
(Per proseguire la lettura cliccate su “2”)
Poi, non si può non vedere che la nota del Quirinale individua come oggetto del potere di clemenza la «esecuzione della pena principale», che comunque Berlusconi non sconterebbe in carcere.
Non sono invece citate le pene accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici: per l’art. 174 c.p. la grazia di norma non le estingue, «salvo che il decreto disponga diversamente».
A volte Napolitano lo ha fatto, è vero, ma la formula utilizzata nella nota conferma che si tratta di un’eccezione e non sembra che qui ci sia lo spazio.
Certo, il Presidente potrebbe non avere citato la pena accessoria perché non è ancora stata rideterminata, cosa che complica la questione: se grazia dev’essere, è inopportuno che arrivi prima che si sappia l’ammontare della pena accessoria (se il decreto venisse emesso prima, poi se ne dovrebbe fare un altro per l’interdizione?), ma solo se la grazia arrivasse in fretta si consentirebbe a Berlusconi di fare pienamente attività politica o – chissà – campagna elettorale, molto più difficile con la detenzione domiciliare o l’affidamento ai servizi sociali.
Già, perché il problema più spinoso è quello della cd. “agibilità politica”. Non stupisce che Napolitano abbia detto di avere ben presenti le esigenze e le preoccupazioni del Pdl: è normale che lo faccia, come rappresentante dell’unità nazionale, per evitare che fratture all’interno della società nascano o si aggravino. Detto questo, però, non si può chiedere al Presidente di fare ciò che non gli compete o che le norme non gli permettono.
Ora, gli ostacoli alla “agibilità politica” di Berlusconi verrebbero dall’interdizione dai pubblici uffici e dalle norme sull’incandidabilità (che non consentirebbero di partecipare a nuove elezioni) e dall’esecuzione della pena detentiva, che comporterebbe le limitazioni ricordate prima. La grazia “ordinaria” o la commutazione della pena detentiva in pecuniaria risolverebbero l’ultimo problema (ovviamente se ci fossero i requisiti per la clemenza).
L’interdizione dai pubblici uffici, invece, dovrebbe essere espressamente citata nel decreto. Le parole di Napolitano sembrano escluderlo, ma anche stavolta applicare una norma eccezionale in questo caso rischierebbe di snaturare il carattere umanitario della grazia e la posizione super partes del Quirinale: il Presidente si assumerebbe una responsabilità politica forte, che poco si addice a un ruolo come il suo (va esclusa una commutazione della pena accessoria, non prevista dalla legge, che parla solo di estinzione).
Di certo, però, il Capo dello Stato non può agire sull’incandidabilità in base alla “legge Severino”. Questa situazione non è una pena principale o accessoria, per cui un provvedimento di clemenza del Presidente della Repubblica non potrebbe cancellarla; in più, la grazia o la commutazione della pena lascerebbero intatta la sentenza di condanna, di cui l’incandidabilità è conseguenza diretta.
L’ostacolo più insidioso, dunque, Napolitano non può toglierlo. A questo punto, la cd. “agibilità politica” potrebbe arrivare solo da una soluzione politica: più che da un voto contrario della Giunta e del Senato, da un intervento normativo del parlamento che intervenga sulla “legge Severino”. E’ chiaro però che di questa iniziativa, come del voto dato negli organi competenti, sarebbero pienamente responsabili i partiti verso i loro elettori: il Quirinale, dunque, è davvero fuori dal gioco e invocarlo è inutile.