(Ecco perché la famosa frase «Non temo Berlusconi in sé ma Berlusconi in me» è sbagliata)
Il piano è il solito: andare allo scontro frontale, e andarci facendo di me stesso il campo di battaglia. Oramai lo hanno capito anche i fedelissimi, che osano senza più nemmeno renderlo partecipe. E così lui parla di brigatismo giudiziario e spuntano i manifesti «Via le Br dalle procure». Lui chiede di cambiare la costituzione, ed ecco pronto il testo di legge che rende l’Italia una Repubblica fondata sul populismo. Come per le intercettazioni, il processo breve, il conflitto di attribuzione. Ormai sono automatismi: lui detta, loro scrivono. Al punto che loro scrivono anche quando lui non detta.
Certo, la cosa lo mette un po’ in imbarazzo. Ma come, c’è chi è più Berlusconi di me?, si dice Silvio, ritratto un po’ disperato e un po’ guascone, vecchio ma sempre giovane, solo ma circondato – insomma, come sempre, ritratto pur di ritrarlo. Perché poi, va bene, l’elettore medio magari non ci fa caso, ma se i ministri fanno a gara a prendere le distanze, e interviene perfino il presidente del Senato (quello della Repubblica «sappiamo da che parte sta», no?), e il tutto serve per demolire un concetto analogo a quello che ho espresso io, non è che poi a qualcuno viene in mente di chiedermi di dissociarmi da uno che dice lo stesso di ciò che ho detto io? E poi che faccio, mi dissocio da me stesso? O peggio: ammetto che i miei si dissociano, in ultima analisi, da me? Così ragiona Berlusconi, mentre con una mano tiene il guinzaglio dei Responsabili e con l’altra si guarda, come un Catilina qualunque, dalle congiure di palazzo.
A furia di alzare i toni mi sono fatto travolgere, pensa, e ora mi tocca distogliere l’attenzione da chi distoglie l’attenzione dei cittadini. Invece di sparare cannonate in libertà contro quegli eversori cancerosi dei magistrati sono costretto a starmene zitto e a cuccia, perché se parlo lo devo fare per smentire, non per rincarare. Certo, posso far trapelare qualcosa ai giornali, far capire che io non ho parlato, ma che in privato stavo con lui, con il sindaco a cui la Moratti ha detto «o io o lui». Così, di passaggio, faccio pure fare la figura della dura e pura a Letizia. Che tocca fare, per campà.
La strategia paga ancora, ma sempre meno. Invece di parlare di amministrative, si politicizza lo scontro. Invece di raccontare Milano, si racconta la propria guerriglia con la giustizia. Invece di capire i cittadini, capiamo sempre e solo lui. E lo mandiamo a memoria. E lo confondiamo con i cittadini. Così lui può mettere di tutto, sul piatto: giustizia, fisco, crescita, famiglia, federalismo, immigrazione, piano per il Sud. E il loro contrario, se serve. Tanto loro sapranno delle mie promesse da marinaio, pensa, ma crederanno che sia colpa dei miei nemici, se restano tali. Parlo di tutto per parlare sempre e solo di me. Loro lo hanno capito, continua Silvio mentre un Responsabile abbaia, e sono d’accordo.
Fino a quando non capiranno che, sottratto a questo corpo, il personaggio non fa più tanto ridere. Che se invece di difendere questo povero miliardario di successo, questo perseguitato dalle calunnie e dalle minorenni, questo presidente del Consiglio che come una Mano invisibile incarnata fa il suo bene per fare quello di tutti, si difende un disgraziato qualunque, beh, allora forse non ne vale la pena. A me perdonano, rimugina Silvio,ma non ai miei simili. E infatti guardali come si ringhiano l’un l’altro, come si aizzano nell’attesa che allenti la presa. Quella loro eccitazione non è smania di potere: è paura. Non euforia, ma insofferenza. Aspettano, insieme alla mia, la loro fine. E dove l’hanno vista? In chi mi assomiglia. Questo è il guaio: in chi mi assomiglia.