Il Museo Immaginario arte “fuori catalogo”
Il Museo Immaginario, l’arte “fuori catalogo” tutta da scoprire.
Attenzione! In questo articolo non parleremo delle opere di Andy Warhol, né di quelle di Dalì né tantomeno di Mirò. Non perché questi non abbiano offerto un contributo significativo allo sviluppo dell’arte, ma piuttosto perché, sempre più, emerge l’esigenza di offrire una panoramica dell’arte più ampia e “reticolare” di quella rappresentata dalle mostre-evento e dalle raccolte di “comodi fascicoli settimanali” gentilmente dispensati dai principali quotidiani.
Nasce così il Museo Immaginario, un blog che ricorda quei prodigiosi libri ricchi di storie, immagini e animazioni d carta tridimensionali che hanno popolato e nutrito la nostra infanzia.
Questo “luogo” raccoglie l’opera e le tracce di artisti solitamente “fuori catalogo”. Leggendo il blog, si ha la sensazione che esista un’intera terra inesplorata della storia dell’arte. Qui si vuole fornire solo un assaggio di essa.
Jean Théodore Dupas (1882-1964) è stato, ad esempio, una delle figure principali dell’ Art Nouveau e Déco, nonché cartellonista, illustratore e decoratore. Comprese le potenzialità dell’arte commerciale e della pubblicità, realizzando così le copertine di Vogue e Harper Bazaar, e nel 1927 il catalogo per l’azienda Max pellicceria; un evento come questo dimostrò, in quel contesto, quanto ormai fossero cambiati i luoghi in cui produrre arte visiva.
Saul Steinberg (1914 –1999), “rumeno di nascita, americano per scelta”, crebbe in una famiglia della borghesia ebraica, si laureò in architettura al Politecnico di Milano, ma nel 1940, a causa delle leggi razziali, fu costretto a dirigersi negli Usa, dove iniziò a lavorare per il New Yorker. Partì così un connubio felice e proficuo, (642 illustrazioni e 85 copertine), durato quasi sessant’anni. Nel 1958 la fotografa austriaca Inge Morath incontrò Steinberg per realizzare il suo ritratto: l’uomo l’accolse indossando una delle sue maschere di cartone. Così, fortuitamente, prese avvio una collaborazione, durata sette anni, durante la quale i due crearono ritratti fotografici, singoli o di gruppo, in cui i soggetti indossavano le maschere di Steinberg. Fino a che punto una maschera serve a celare parte di noi, e sino a che punto, invece è utile a rivelare una parte altra di ciò che siamo? Viene spontaneo chiederselo, guardando, ad esempio, i ritratti di gruppo “rubati” probabilmente a un party, quelli che presumibilmente raccontano un gruppo familiare, e quelli che immortalano ragazze anni ’50 in spiaggia.
Si passa poi ai rimandi alla cultura pop di cui è intriso Arancia Meccanica (1971) di Stanley Kubrick. Tanto per cominciare, il locale punto di ritrovo di Alex e i suoi fu ispirato chiaramente a “Chair” e “Table”, due provocatorie sculture realizzate nel 1969 dall’avanguardista inglese Allen Jones, all’epoca aspramente criticato per il contenuto esplicito delle sue opere. La grande scultura-fallo, usata per uccidere, è anch’essa un’opera d’arte a tutti gli effetti: venne creata infatti dallo scultore olandese Herman Makkink.
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