Siamo alla fine del ventesimo secolo, e il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni… no, tranquilli, non atomiche prospettate da un celebre manga di quegli anni, bensì quelle atletiche di una nuova generazione di fenomeni del parquet capitanata da più celebre 23 in maglia rossonera di sempre. Sono anni in cui il basket NBA compie un salto in avanti clamoroso, aggiungendo ad un già immenso livello di tecnica anche un potenziale fisico inarrivabile per le persone normali.
Sono gli anni, come detto, di Michael Jordan, ma anche di Drexler, di Barkley, di Wilkins, giusto per citarne alcuni, perché l’elenco sarebbe lunghetto e probabilmente anche barboso. Tutta gente che, letteralmente, vola. Le immagini parlano da sole.
Tuttavia, e per riprendere il preambolo del fumetto di cui sopra, la razza umana era sopravvissuta. Si aggirava infatti tra questi superman della palla a spicchi un ragazzetto bianco da Washington, 185 centimetri con probabilmente le scarpe addosso, 75 chili prima di andare in bagno la mattina, la faccia e l’aspetto di chi ti aspetteresti di trovare dietro una scrivania o allo sportello della banca e non a far la figura dell’agnello sacrificale in mezzo ai leoni della lega più forte del mondo. Peccato che questo “agnellino” in mezzo ai leoni era solito banchettare. Nel vero senso della parola.
Facciamo un passo indietro. E’ il 1984 e per entrare in una NBA a 23 squadre (Dallas è l’ultima arrivata nel 1980) devi saper giocare per davvero. I riflettori sono tutti puntati sugli arrivi al draft dei vari Olajuwon, Barkley e Jordan, solo per dirne tre che la storia l’hanno scritta sul serio. Quando alla 16 a Salt Lake City chiamano il nostro scricciolo bianco, dalla gente davanti ai maxischermi partono fischi, di quelli potenti. La nostra storia inizia così.
Carattere schivo, timido e riservato, sotto i riflettori ci finisce soltanto quando si trova sul parquet e lì la timidezza, come per incanto, svanisce. L’anno successivo gli scelgono un altro bravino, tale Malone Karl, un altro che due o tre pagine di questo gioco le ha scarabocchiate, diciamo così. I due si sposano cestisticamente alla perfezione, ma pure fuori dal campo il binomio diventa inossidabile, tanto da rendere difficoltoso il giudizio su dove terminasse la grandezza dell’uno e iniziasse quella dell’altro. Importa poco a dire il vero, soprattutto per chi vuole continuare a leggere la nostra storia.
Intanto il piccoletto in campo banchetta, dominando in una maniera che sta iniziando a vedersi sempre meno. Mentre tutto intorno è un crescendo di elevazione, velocità e atletismo il piccolo play bianco dimostra una visione di gioco, una gestione della squadra e un’ intelligenza cestistica a tratti clamorose. Sul parquet non è quasi mai appariscente e difficilmente lo si vede nelle 10 miglior azioni della serata, ma la sua squadra inizia a vincere e, tra un assist e una palla recuperata, anche i non addetti ai lavori iniziano ad accorgersi di lui. E ci mancherebbe.
John (potevamo trovare un nome meno comune o meno adatto a lui? Difficile..) però non è solo fosforo e tecnica. A qualche malcapitato l’idea di dominarlo fisicamente o di provare a metterla giù dura era anche balenata, salvo ritrovarsi ben presto ad assaggiare i suoi affilatissimi gomiti al primo pick ‘n roll disponibile. Sì perché sotto il finto mantello da agnellino John è anche un duro vero.
Tra le varie, innumerevoli statistiche che potreste trovare su di lui ve ne sono alcune totalmente irreali. Per esempio le 609 partite consecutive giocate senza mai saltarne una. Fermatevi un secondo a riflettere su questo numero. Seicentonove. Fanno circa sette anni consecutivi. Play off compresi. Se siete già increduli, a questo punto vi consiglio di non continuare la lettura. Eh sì perché poi trovare spiegazioni al fatto che detenga quattro record Nba di ogni epoca comincia a diventare difficoltoso sul serio.
Va beh, direte, saranno record secondari. Buonanotte. Primo per assist (15,806-17,645 includendo i play off). Primo per palle recuperate (3,265-3603 play off compresi). Primo per vittorie consecutive della classifica degli assist (9). E per finire primo per percentuale dal campo fra le guardie. La media non ve la dico altrimenti rischiate di dover correre in bagno con nausea e vertigini. Va beh dai eccola: 51,5% in carriera. Ora correte pure a prendere un secchio.
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A proposito di carriera. Due o tre cose andrebbero dette anche su questo punto. Perché un giocatore del genere, consigliato da un buon agente, non potrebbe che essere conteso e avere ai propri piedi tutte le migliori franchigie della lega. Giusto? Sbagliato. John non assume mai un solo agente in tutta la sua carriera, preferendo accordarsi personalmente per i rinnovi e le firme dei contratti. Perché tra gentiluomini, come dice lui, la parola vale ben più di una semplice firma.
Particolare non da poco, disputa tutte e 19 le sue stagioni (1504 gare) con la stessa maglia di chi lo ha scelto quella prima volta, gli Utah Jazz, anche se a dire la verità qualche fischio del giorno del draft la gente se lo è rimangiato. Concetti come “bandiera” un tempo si potevano ritrovare con un po’ più di facilità, diciamo così.
Non vincerà mai un titolo in carriera il nostro John, anche se per due anni di fila trascinerà la sua squadra fino alla finale contro un insuperabile Jordan (ancora tu), risultando probabilmente la rivale migliore e più insidiosa per gli imbattibili Bulls di quel periodo.
Si consolerà in qualche modo, non solo con le 10 convocazioni alla partita delle stelle (quando ancora di partita si trattava, e non di un mix tra pagliacciata ed esibizione) di cui fu anche MVP in una edizione (non a caso insieme all’inseparabile Karl) ma anche per gli onori e i tributi che gli saranno riservati con ampio merito.
Sarà infatti parte della più grande squadra di pallacanestro di ogni epoca, tributo assai superiore al “semplice” oro olimpico conquistato a Barcellona ’92 e bissato ad Atlanta ’96. Ah se cercate i palloni di quelle finali li trovate esposti al Delta Center, suo gentile omaggio visto che in entrambi i casi se li tenne ben stretti al fischio finale (anche se non rientrano tra le “steals” ufficiali della carriera).
Tra le cose cui probabilmente gli importeranno tra il poco e il nulla: una statua del duo cestistico più celebre degli Stati Uniti davanti al Delta Center, il Loro campo; una strada ribattezzata col suo nome sempre nei pressi del palazzo; il nome del suddetto duo dato a innumerevoli esercizi commerciali di Salt Lake City.
Cose che speriamo abbiano almeno un po’ toccato la scorza di questo campione diverso da tutti gli altri: l’inclusione nei 50 migliori giocatori NBA di tutti i tempi nel 1996 durante l’all star game di New York e l’ingresso nella Hall of Fame nel 2009 insieme proprio a Michael Jordan (ma non dovevamo vederci più?) e a David Robinson.
Tra le cose che invece lo avranno commosso nel profondo ci sono sicuramente le parole del compagno e amico Malone: “non ci sarà mai un altro John Stockton. Mai”.
Si è ritirato (quarantenne) nel 2003, attraverso un comunicato stampa dei Jazz, senza pubblicità, senza interviste, senza conferenza stampa, senza partite d’addio, nel silenzio e in punta di piedi. Esattamente come era entrato 19 anni prima. Non ci saremmo aspettati niente di meno.
Marco Minozzi