La crisi in Siria, lo shale gas, la base di Tartus e le verità nascoste

Pubblicato il 5 Settembre 2013 alle 18:36 Autore: Giovanni Orazio Marotta

Quella della crisi siriana raccontata dai media sembra una storia romanzesca, dove, come ogni romanzo che si rispetti, c’è sempre il buono e il cattivo. Questa volta però le sfumature di questi personaggi rimangono grigie e poco definibili dagli stessi media.

Nonostante la miriade di servizi sull’argomento non è ancora chiaro chi sia il vero cattivo della vicenda. Così a prima vista Assad è quello che i media hanno accostato più facilmente al ruolo.

Ma prima di stabilire la correttezza di questa conclusione è doveroso tracciare un ragionamento piuttosto largo e di ampie vedute sull’argomento.

Gli Stati Uniti hanno raggiunto un anno fa l’autosufficienza energetica grazie alla tecnica dello shale gas. Cosa sarebbe? Come sappiamo bene, fino a qualche anno fa, quando si parlava di gas, si intendevano i giacimenti di gas naturale da cui viene estratto il gas mediante delle trivellazioni.

La nuova scoperta consta invece nell’estrazione del gas intrappolato nelle rocce del sottosuolo, le cosiddette scisti, formazioni rocciose del sottosuolo ricche di gas. La novità sta nell’estrazione. Se per i giacimenti tradizionali bastava raggiungere il serbatoio nel sottosuolo, nel caso dello shale gas è necessario fratturare queste rocce per fuoriuscire il gas interno. Gli Stati Uniti hanno brevettato un modello che se pur costoso è efficace per farlo, il cosiddetto “fracking”, ovvero la fratturazione idraulica determinata da notevoli flussi d’acqua.

Ora, tralasciando le polemiche sorte negli Stati Uniti per le relazioni con l’inquinamento atmosferico (il metano che fuoriuscendo comprometterebbe ancor di più l’effetto serra) e con i terremoti che si potrebbero determinare, gli Usa si sono avviati verso l’autosufficienza energetica, scatenando un effetto domino che annovera tra le sue conseguenze l’instabilità del mondo medio orientale.

La trasformazione in paese esportatore di energia ha consentito al governo americano di trattare con maggiore flessibilità i disordini in Medio Oriente, come confermato dall’ex direttore della Cia Deutch, il quale ha ribadito che ” è giunta la fine della dipendenza degli Stati Uniti da regioni politicamente instabili”. Ora in cosa si traduce questa indipendenza energetica?

Anzitutto gli Stati Uniti possono perseguire il loro obiettivo: esportare la democrazia si traduce in un sistema atto a sbarazzarsi di regimi illegali, legati alla vecchia concezione stalinista dell’economia, eredità del socialismo sovietico importato nella zona araba. Il guadagno che si prospetta è quello di un mercato ampio e pronto ad ospitare nuovi investimenti delle imprese americane, una prospettiva irrealizzabile fino a qualche anno fa in ragione del diffuso anti-americanismo islamico.

D’altronde è stato lo stesso Joe Biden, vicepresidente americano, ad affermare che “sacrificare vecchi amici come Ben Ali, Mubarak, Saleh, e tradizionali nemici come Gheddafi e Assad in nome del libero mercato è una scelta obbligata per Washington”.

Un cambio di rotta dovuto alla maggiore flessibilità americana, slegata da dipendenze energetiche e in grado di decidere perseguendo i propri scopi. Una situazione che inevitabilmente ha provocato l’insorgenza di tensioni tra gli Stati Uniti e gli storici alleati dell’Arabia Saudita. I due paesi hanno un’alleanza geo-strategica dal 1945, quando l’allora re Saud promise la priorità assoluta agli Stati Uniti per lo sfruttamento petrolifero. La nascita di queste tensioni sono una novità assoluta per i nuovi equilibri geopolitici.

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