Renzi, da “fattore di disturbo per il centrosinistra” a “risorsa”
Spesso la politica è guidata da logiche incontrollabili, che è inutile condizionare con artificiali variabili.
Fino all’anno scorso per gran parte del Partito Democratico Matteo Renzi appariva nella migliore delle ipotesi un “serio fattore di disturbo per il centrosinistra”. Nella peggiore “il male”.
La vicenda politica dell’ultimo anno, per quanto non molto favorevole all’interesse nazionale, sembra però aver favorito la strategia del sindaco fiorentino.
La sconfitta di Bersani alle elezioni politiche di febbraio ha sdoganato gran parte del Renzi pensiero e gran parte delle sue intuizioni politiche. Rendendolo unanimemente l’uomo maggiormente in grado di battere la destra. Nonostante tutto le dinamiche di disturbo che avevano accompagnato le primarie di coalizione del 2012 (registrazione per votare, cambiamento delle regole rispetto al precedente del 2005, convocazione all’ultimo delle primarie) non si sono del tutto esaurite ed è innegabile l’astio che parte del partito nutre nei confronti di Renzi.
A differenza dello scorso anno (dove intuendo la “tattica dell’eterno rinvio bersaniano” nella convocazione delle primarie) quando Renzi si candidò subito alla premiership del centrosinistra non potendo però poi discutere le regole restrittive tese a ridurre la partecipazione popolare e le sue chance di vittorie nelle primarie stesse, il fiorentino aspetta ad ufficializzare la sua candidatura alla segreteria del Pd. Sono sorte altre candidature alternative a Renzi (Civati, Cuperlo e Pittella) che però non sembrano poter scalfire una sua ipotetica vittoria. A questo punto sono state utilizzate diverse strade tese a rendere impervia la strada politica dell’ex rottamatore: in primo luogo si è provato a ridiscutere il concetto delle primarie, elaborando un mancato automatismo del ruolo di segretario con quello di candidato premier (vicenda questa che a dire il vero non ci sembra dirimente per le sorti renziane) non escludendo possibilità di far slittare l’assise congressuale. Espedienti a dire il vero non del tutto esauriti ma che col passare del tempo rendono sempre più difficile un drastico cambiamento delle regole e dello statuto del partito in occasione dell’Assemblea Nazionale del 20 e 21 settembre.
In secondo luogo si è provato a inserire nella mischia congressuale personalità che senz’altro avrebbero spinto l’assise congressuale ad assumere connotati meno scontati e meno equilibrati, rendendo maggiormente impervia la strada di Renzi. Non è un mistero che nella mente di Bersani c’era l’ipotesi di riproporre e di procrastinare la segreteria di Guglielmo Epifani a nome di un patto di garanzia in grado di placare tutti ma senza far arrivare Renzi al vertice del Nazareno. Al tempo stesso si è cercato di inserire anche Enrico Letta nel dibattito congressuale. Sia evidenziando come una leadership troppo forte possa compromettere la vita e l’attività dell’esecutivo, sia rifacendosi, per uno di quei paradossi tipici della politica italiana, ad una sorta di schema bipolare “alla Renzi” in cui Letta di fatto assumerebbe, proprio in quanto inquilino di Palazzo Chigi, la veste di leader del fronte riformista in Italia.
Tutte strategie di disturbo troppo deboli (Epifani non è considerato il parlamentare più carismatico del Pd, e lo stesso Letta teme che un suo ingresso nella diatriba congressuale possa compromettere un già precario equilibrio) che hanno portato ad un fenomeno fisico: la rottura degli argini.
Quindi ora tutti con Renzi e l’unica incognita è legata alla relazione tra il Pd a trazione renziana e l’esecutivo Letta. Cercando sempre di non ricalcare il precedente veltroniano in cui vincere in maniera plebiscitaria si tramutò in un non vincere, in quanto tutti ti avevano sostenuto (anche quello che non ti possono vedere). In questo senso apparirebbe come un errore macroscopico una ricandidatura di Matteo Renzi a Palazzo Vecchio considerando tra l’altro che ci sono i margini per mantenere in vita quel laboratorio della sinistra fiorentina attraverso una personalità non lontana culturalmente dall’attuale sindaco.
In questo quadro, a maggior ragione se si vuole far sopravvivere il governo Letta oltre il semestre italiano di presidenza europea, non è da escludere l’ipotesi di una candidatura di Matteo Renzi alle elezioni europee. Avrebbe l’occasione, dopo essere passato al vaglio degli elettori e dei simpatizzanti del Pd, di essere votato dalla cittadinanza tutta e di farsi conoscere nelle sedi europee ed istituzionali. In un meccanismo inverso secondo cui non si va a Strasburgo solo da “padri della patria” (Soares e Verhofstadt docet). Ma anche da “giovani promesse per il futuro.