L’Uomo del Colle ha detto no
C’è una frase che abbiamo sentito spesso, negli ultimi vent’anni. “Dobbiamo fare le riforme”. “Il Paese deve essere riformato”, “le riforme di cui ha bisogno il Paese”. Ce l’hanno ripetuto come un mantra, fino a farlo diventare un dogma, una verità rivelata e inattaccabile.
È, tra l’altro, una frase che gioca un ruolo importante nello strano teatrino innescatosi in questi giorni sulla questione della decadenza di Silvio Berlusconi.
A cosa si riferiscono, i sempiterni “saggi” della politica italiana, quando parlano di riforme di cui il Paese ha bisogno? Un’idea possiamo farcela perché, in questi venti anni, proprio fermi non siamo stati. Qualche riforma l’abbiamo fatta, tutto sommato. Abbiamo riformato la scuola e l’università, grazie all’impegno di Berlinguer, della Moratti e della Gelmini. Abbiamo riformato le pensioni con Dini, Maroni e poi la Fornero. Abbiamo riformato il lavoro con Treu e poi con Biagi. Abbiamo riformato il pubblico impiego, la sanità, gli enti locali.
Sono queste le riforme di cui l’Italia aveva fortissimo bisogno; molte devono essere perfezionate, completate, implementate. Molte altre, si intende, devono ancora essere realizzate.
Disegnano un paese più dinamico e moderno. Più “efficiente”, secondo una prospettiva aziendalistica, e più “al passo con i tempi”. I tempi di una scuola un po’ meno universalistica e un po’ più “azienda”, una sanità che gradualmente non è più gratuita, ma che sprizza efficienza contabile da tutti i pori, un lavoro più precario (pardon, flessibile) e meno sindacalizzato. Un’idea del pubblico che è un po’ meno pubblico. Un’idea di “cittadinanza a pagamento”.
È l’andazzo dei mercati, è il trend globale, d’altronde. L’Italia è stata (ed è ancora) in grande ritardo su molti temi, e ha dovuto più volte correre al riparo (dei tecnici) per “recuperare” il terreno perduto. La politica italiana, in questo, non è stata molto affidabile. Le “difficoltà strutturali” hanno ritardato il provvidenziale avvento delle riforme sia quando ha governato la sinistra sia quando a Palazzo Chigi sedeva Berlusconi.
Da qualche anno, però, sembra che questo nostro inefficiente Paese abbia trovato la ricetta per una insperata vitalità riformatrice. L’emergenza della crisi ci ha spinto a osare l’inosabile, a sperimentare il grande inciucio; una legge elettorale indecente e uno “stallo messicano” creato ad arte hanno confermato e rafforzato l’esperimento. Le larghe intese sono diventate il nostro orizzonte politico permanente, sotto l’egida e con la viva e vibrante soddisfazione dell’Uomo del Colle.
Napolitano è divenuto il garante interno e internazionale della “pacificazione” politica italiana. L’idea che tra “destra” e “sinistra” non ci siano più differenze, diffusa già da anni nella mentalità dell’italiano medio, ha trovato infine conferma nella “strana maggioranza” che ci governa ormai da due anni. Il Presidente Napolitano – il comunista che criticava Berlinguer per la sua insistenza sulla questione morale – è divenuto, di fatto, la guida strategica di un’operazione politica di portata epocale. Un allineamento “forzato”, acritico e obbediente del nostro Paese sulle direttive europee, a loro volta forgiate nell’officina della finanza internazionale. Stabilizzando le larghe intese, le momentanee deviazioni e le pulsioni “immature” delle forze politiche sono state neutralizzate. Napolitano, dopo aver partorito il governo Monti, è stato richiamato al suo posto per farsi alto protettore dell’operazione Letta.
La vicenda giudiziaria di Silvio Berlusconi, a questo punto, non può diventare un ostacolo capace di far crollare l’intera operazione. La condanna definitiva e il conseguente “allontanamento” dalla politica del Silvio nazionale non possono pregiudicare l’affidabilità dell’Italia nello scenario dei mercati internazionali. Il gioco non vale la candela.
Di fronte al ricatto berlusconiano (“o mi salvate o cade il governo”) il migliorista Napolitano si riscopre tessitore del compromesso diplomatico su una qualche “convivenza” con il pregiudicato di Arcore.
Non ci sono alternative, d’altronde. Una deriva sinistroide-grillina è vista come fumo negli occhi dall’Europa; il centro montiano non è riuscito a ottenere una quantità di voti sufficiente per reggere un ipotetico governo di centro-centro-sinistra. PdL e Lega sono usciti da tempo dai cuori delle cancellerie europee, anche di quelle conservatrici. L’Italia non può che affidarsi a Napolitano, alla sua sapiente regia e alle larghe intese.
Una sorta di impulso primordiale ha spinto il Partito Democratico, in queste settimane, a pensare di deviare dalla fedele linea della pacificazione. In un sussulto di dignità, una (buona) parte dei democratici ha pensato di applicare una legge ovvia in un modo ovvio: votando la decadenza di Berlusconi. Ma la regia del Quirinale li vuole richiamare a più miti consigli: cadesse Letta, l’unica opzione percorribile sarebbe quella di cercare una qualche intesa con il Movimento di Grillo.
Un’intesa antitetica alla stessa rielezione di Napolitano. Un’intesa impossibile per i mercati. Un’intesa di cui Napolitano non può essere garante. Perché fermerebbe la strada delle riforme.
Andrea Scavo