Come noto le auto europee, dopo avere calcato per anni le strade delle città del vecchio continente, vanno a concludere la loro vita in Africa. Il fenomeno era molto forte in passato. E’ diminuito, ma si è tutt’altro che arrestato.
Il parco auto di molte città africane è fatto da vetture che hanno già svolto il loro servizio in Europa, in centri urbani con le polveri sottili sotto controllo o in autostrade con segnaletica perfetta e comunque su strade asfaltate, senza buche.
Nella vecchiaia, quando avrebbero bisogno di qualche riguardo in più, si ritrovano invece in vere e proprie jungle, asfissiate dai pestilenziali gas di scarico dei camion con marmitte bucate o inesistenti e a perenne rischio ammortizzatori a causa delle voragini che punteggiano le strade africane.
Ne incontrai una di queste auto. Era una Mercedes che probabilmente aveva trascorso tutta la sua vita in qualche paese nordico, una vita di lavoro senza traumi, soggetta ad una guida pacata, rispettosa. Aveva ancora i portasci montati sul tettuccio e il proprietario, Milton, non aveva nemmeno lontanamente idea di cosa fossero.
Milton era un tassista ugandese. Abitava a Kampala e faceva la spola tutti i giorni tra la capitale e Entebbe, la città vicinissima a Kampala, sull’immenso Lago Vittoria, sede dell’aeroporto internazionale.
Avevo ingaggiato Milton per una settimana. Mi veniva a prendere tutte le mattine in Hotel e mi scorazzava in giro. Era simpatico, guidava bene, sapeva destreggiarsi nel traffico caotico di Kampala e sapeva anche destreggiarsi con la gente.
Quei portasci montati sulla sua Mercedes erano oggetto di domande continue alle quali lui non sapeva rispondere, così si era inventato una storia, gliela avevo sentita raccontare a dei ragazzi che, mentre mi aspettava, gli avevano fatto la solita domanda.
La sua auto – aveva raccontato – nella vita precedente, in Europa, era una macchina della polizia. Ma una macchina operativa, di un squadra anti crimine, di quelle che si vedono all’opera nei film d’azione. Quei supporti sul tettuccio erano gli alloggiamenti delle armi in dotazione, che lui aveva anche descritto con dovizia di particolari: lancia missili laser, fucili di alta precisione con mirino elettronico, una torcia elettrica capace di illuminare a giorno una foresta. Io, nel suo film, ero un poliziotto in missione in Uganda, sul Lago Vittoria.
Milton era entrato nella parte e i ragazzi lo ascoltavano a bocca aperta come se fossero al cinema. Quando arrivai (lo ascoltavo mentre ero sulla soglia di un negozio) gli feci cenno che poteva finire di parlare. Ma lui scattò sull’attenti e montò al posto di guida come se avessimo una missione segreta da compiere, lasciando i ragazzi a metà della storia. Gli comunicai dove volevo andare e mi rispose, impettito: “Yes Boss”. Era entrato anche lui nel Film, colpa dei portasci.