Pena di morte per gli assassini di Nirbhaya
Fa ancora scalpore in India, ma lo segue attentamente anche l’opinione pubblica internazionale, il caso di Nirbhaya (“colei che non ha paura”). La ragazza di poco più di 20 anni, soprannominata così dai giornali indiani e di cui non si conosce il nome, venne brutalmente stuprata il 16 Dicembre scorso a New Delhi, è poi morta in seguito alle ferite riportate in un ospedale di Singapore 13 giorni dopo.
La studentessa di fisioterapia si era recata insieme a un altro ragazzo in un cinema nella zona sud della città. Per tornare a casa utilizzò un bus privato, proprio lì avrebbe incontrato i suoi carnefici. In sei picchiarono a sangue con una spranga di ferro il ragazzo, la stessa spranga fu poi utilizzata anche contro di lei durante la violenza sessuale durata tre ore e mezza. Le due giovani vittime furono poi buttate giù dal bus, seminude e agonizzanti, ai margini di una strada. Il ragazzo riuscì a sopravvivere, una fortissima emorragia cerebrale, un’infezione ai polmoni e all’intestino, invece, stroncarono la vita alla ragazza. La reazione degli indiani non tardò ad arrivare: in migliaia scesero in piazza per reclamare giustizia e per chiedere al governo nuove misure contro il problema, endemico in India, della violenza sulle donne.
I presunti colpevoli vennero poi arrestati tra dubbi e sospetti sull’operato della polizia nelle indagini, erano tutti abitanti di Ram Dass, una delle peggiori bidonville a sud di New Dehli: Ram Singh di 32 anni, autista del bus da subito viene considerato il principale istigatore nonché ideatore dell’aggressione, Mukesh Singh di 29 anni, fratello di Ram lavorava con lui sul bus, proveniva da un remoto villaggio del Rajasthan, Vinay Sharma di 20 anni, unico diplomato del gruppo lavorava in una palestra e aveva tentato di entrare nell’Indian Air Force, Pawan Gupta di 19 anni, fruttivendolo e muratore, Akshy Takhur di 28 anni, sposato e padre di un figlio, era scappato da New Dehli il giorno successivo allo stupro, venne arrestato a casa del cognato nello stato del Bihar. Sul bus si trovava anche un 17enne che poi si scoprirà essere scappato dalla sua casa nell’Uttar Pradesh, sin da quando ne aveva 11, aiutava a pulire l’autobus in cambio poteva dormirci dentro durante l’inverno.
Quest’ultimo, minorenne all’epoca dei fatti, è stato condannato a tre anni di reclusione in riformatorio, pena massima prevista in India per gli individui con meno di 18 anni.
Tutti gli altri, dopo un processo durato sette mesi, sono stati condannati a morte per impiccagione a eccezione dell’autista del bus, Ram Singh, che si è apparentemente suicidato nella sua cella nel carcere di Tihar il 12 Marzo. Per il giudice Yogesh Khanna “il caso eccezionale rientra nell’ancor più eccezionale categoria” che giustifica la pena capitale. Soddisfatto il padre della vittima, l’avvocato di due dei quattro imputati ha annunciato che farà ricorso contro la condanna all’Alta Corte di Delhi.
Tara Rao, responsabile di Amnesty International in India, si stringe intorno ai familiari delle vittime ma ricorda come questa sentenza, che ricorre alla pena di morte per fare giustizia, non porterà che a una “vendetta a breve termine”. Nonostante il governo indiano, sulla spinta dell’indignazione generale, lo scorso Aprile abbia varato una legge che inasprisce le pene per chi commette violenza e molestie alle donne, in India non è ancora punito lo “stupro coniugale” se la consorte ha più di 15 anni, così come viene garantita di fatto l’impunità agli agenti di polizia che commettono atti di violenza sessuale, ha ricordato lo stesso Rao auspicando “interventi concreti” oltre quelli “legislativi”, comunque inimmaginabili anche solo pochi anni fa.