Il 15 settembre di 5 anni fa, la banca americana Lehman Brothers chiuse i battenti.
Da quel momento, una lunga discesa nel gorgo della crisi avrebbe accompagnato le economie occidentali nel tentativo di limitare i danni che il collasso del sistema finanziario avrebbe potuto arrecare al mondo intero.
Crisi con epicentro negli Stati Uniti, dove l’innovazione finanziaria, la politica del denaro facile messa a punto dall’ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, e i pallidi controlli effettuati dalle Autorità di Vigilanza hanno consentito alle banche di erogare credito a soggetti a rischio insolvibilità.
Venuti al pettine i nodi delle scriteriate operazioni di credito e di ingegneria finanziaria messe in atto dagli istituti bancari, gli Stati sarebbero giunti al capezzale del sistema finanziario garantendo la liquidità necessaria a risollevarlo.
Messo in sicurezza il sistema bancario attraverso il coinvolgimento dello Stato sovrano nel capitale delle banche più a rischio, così come avvenne in alcuni paesi, tra cui Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, e dunque socializzate le perdite al fine arrestare la fatale cancrena, il cancro della crisi avrebbe mostrato ancor più la sua aggressività.
Poco tempo dopo, infatti, le metastasi del crack finanziario avrebbero raggiunto l’economia reale, costretta a fronteggiare l’inevitabile chiusura dei rubinetti del credito bancario, nonché l’avvitamento su politiche di inasprimento fiscale e di tagli di spesa lineari fatti sulla carne viva dei cittadini.
Come se non bastasse, per i paesi del Sud Europa, la Scilla del corto-circuito finanziario si sarebbe trasformata nella Cariddi della crisi del debito sovrano.
Infatti, paesi come Italia, Spagna e Portogallo hanno assistito al rialzo dei rendimenti sui titoli di stato, con conseguente aggravio delle finanze pubbliche a causa dell’aumento del servizio del debito pubblico.
Nonostante i numerosi shock consumatisi dopo il fallimento di Lehman Brothers, e i costi altissimi sostenuti per evitare la débâcle del sistema finanziario (oltre 1.200 miliardi di dollari per quello statunitense, secondo i dati forniti da Bloomberg), pare che gli eccessi della finanza non siano del tutto scomparsi.
Sebbene qualche testa sia rotolata, come quella di Fred Goodwin, ex amministratore delegato di Royal Bank of Scotland, e qualche timida proposta di limitazione dell’attività speculativa delle banche sia stata avanzata (ad es., la cd. Volcker Rule negli States, prevista dal Dodd-Frank Act, limita l’attività speculativa con mezzi propri delle banche commerciali al 3% del capitale Tier 1, ossia quello composto dal capitale azionario e dagli utili non distribuiti), nessun argine sarebbe stato posto ai lauti bonus riconosciuti ai banchieri.
Tra i responsabili dello tsunami finanziario per aver portato all’esasperazione la cultura del rischio all’interno del mondo bancario, il sistema dei bonus non avrebbe conosciuto crisi. Infatti, secondo i dati dell’Fsa, l’autorità di vigilanza inglese sui mercati finanziari, riportati dal The Guardian, più di 2.800 persone impiegate nella City, esattamente un anno dopo la crisi, avrebbero percepito un compenso superiore ad un milione di sterline.
Inoltre, sulla base dei dati pubblicati dall’Eba, ossia dall’autorità bancaria europea, più di 2.400 banchieri della City avrebbero guadagnato, nel 2011, più di un milione di euro.
C’è dunque il rischio che si ripeta un nuovo collasso finanziario, a 5 anni da quello di Lehman?
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Sì, secondo l’ex ministro del Tesoro britannico Lord Myners, per il quale le banche sarebbero “ancora troppo grandi, troppo interconnesse e troppo sottocapitalizzate”, e le regole di Basilea III troppo deboli per prevenire ulteriori dissesti bancari.
“Sarebbe da ingenui escludere che un’altra grave crisi possa verificarsi nei prossimi 10 anni”, ha commentato causticamente lo stesso Lord Myners. Il peggio deve ancora venire?