I panni scomodi di Letta – Jo Condor
Da oggi i notisti e coloristi politici hanno una certezza in più: è rischioso, rischiosissimo fare il loro mestiere senza avere adeguata contezza di Carosello.
Non importa l’età dello scrivente, può essere anche nato dopo il 1977, anno che iniziò con un lutto per i bambini di tutta l’Italia: il primo gennaio andò in onda l’ultima puntata di quello che a lungo fu l’unico spazio pubblicitario della tv nostrana.
Tra quei bambini in lutto c’era probabilmente anche un giovanissimo Enrico Letta, che – forse già occhialuto – avrà guardato perplesso lo schermo televisivo, magari chiedendosi dopo quale altra trasmissione qualcuno l’avrebbe mandato amorevolmente a nanna.
Quei ricordi devono essergli rimasti impressi a fondo se oggi in conferenza stampa, all’ennesima richiesta di un parere sulla stabilità della sua maggioranza, ha lasciato spazio alla sua memoria bambina. “Da un po’ di tempo a questa parte c’è la volontà di usare il governo come una specie di punching ball” e poi ha brandito la nostalgia come una lama affilata: “L’unica immagine che mi è venuta in mente in queste ore è stata di quando ero bambino e guardavo – come penso molti dei presenti qui – Carosello: c’era quello che diceva ‘Non c’ho scritto Jo Condor in testa’: voglio dirlo a tutti, ‘Non c’ho scritto Jo Condor in testa’, l’ho imparato fin da bambino”.
Sapeva bene – forse – Letta di avere toccato uno dei mostri sacri della tv del tempo che fu, tanto bella, tanto celebrata, ma che è bene che non torni, soprattutto come “minestra riscaldata”. Sì, la Rai ha rispolverato Carosello, gli incassi sono andati bene, gli ascolti pure, ma la qualità spesso ha lasciato a desiderare, specie quando ad essere proposti erano gli stessi spot che andavano in onda di solito, sia pure in una sorta di extended version.
Del resto, occorre ammettere che Carosello è stato un unicum nell’universo pubblicitario e una rappresentazione delle peculiarità italiane: la Rai aveva bisogno di soldi, c’era necessità di indurre gli italiani al consumo, ma lo si doveva fare tra il paternalistico e il pedagogico, per la via più lunga (e costosa, per gli inserzionisti). Era stato più poetico Edmondo Berselli, nel dire che Carosello “era nato come un compromesso fra il mercato e le famiglie, fra una narrazione e lo slogan“, ma l’idea era quella.
La trasmissione andò in pensione quando la formula divenne troppo ingessata, ma la si è sfruttata per vent’anni, mentre in Brasile – lo ha detto, non senza coraggio, un dissacratore di professione come Gianni Boncompagni – già si passavano solo gli spot da 30 secondi. Non erano avanti loro, eravamo indietro noi, ma a chi ha vissuto quell’epoca fa piacere riassaporare l’aroma di quelle scene.
Non a caso, nella prima edizione di Carosello Reloaded le pubblicità più apprezzate da chi era stato bambino negli anni ’60-’70 sono state quelle che hanno riproposto alcuni dei filmati di allora (con buona pace dei critici televisivi, che hanno visto nel ripescaggio di vecchio materiale il trionfo della creatività zero). Tra quei passaggi pubblicitari, anche quelli della Ferrero.
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