Montale e il “giallo” del Diario Postumo
Tra sospetti, accuse e legittime difese, Il Diario Postumo di Eugenio Montale ha attirato, a partire dall’estate del 1997, l’attenzione di filologi e non solo. Ma il caso, seppur dibattuto a lungo, non è ancora stato risolto.
Il dato certo è che il poeta dedicò il Diario, con le sue ottantaquattro poesie datate e firmate, ad Annalisa Cima, poetessa milanese e musa ispiratrice dei suoi ultimi anni. Montale stesso affidò a lei il compito di pubblicare alla sua morte, sei per anno a partire da cinque anni dopo la propria scomparsa (dunque dal 1986), e per undici anni consecutivi, il gruppo di componimenti.
Si tratta di poesie nate «negli uggiosi pomeriggi milanesi», composte dal 1969, dallo stile «colloquiale e diaristico» che, per gli affezionati ad Ossi di Seppia, possono sembrare un passo indietro rispetto alla delicata poetica montaliana. Va detto anche che tutti i testi originali sono scritti a mano su materiale povero o di recupero.
Tutto lasciava prevedere che l’estrema opera del premio Nobel per la letteratura avrebbe goduto di un’attenzione particolare: e per alcuni componimenti inaspettati, e per la contraddizione di un’opera scritta su scartafacci, a cui è dedicata una cura editoriale attenta e raffinata.
E infatti i colpi di scena non tardarono ad arrivare: a pochi mesi dall’uscita dell’edizione critica del Diario Postumo a cura di Rosanna Bettarini, le pagine del Corriere della Sera del 20 luglio 1997 ospitarono un articolo in cui Dante Isella, noto filologo, metteva severamente in dubbio l’autenticità dell’opera.
La negazione della paternità si fondava soprattutto su pesanti coincidenze stilistiche tra alcuni componimenti postumi ed altri “in vita”: coincidenze tanto marcate che, invece di palesare rapporti di intratestualità, farebbero pensare, al contrario, ad un fenomeno di plagio.
Scrive Isella: «Si tratta, molto probabilmente […] di frasi colte al volo nella conversazione orale col poeta, frasi serbate nella memoria propria o di un registratore […] e promosse in fretta a versi». E ad avvalorare la tesi intervenne anche un esperto di scritture, Armando Petrucci, il quale espresse dei dubbi circa la grafia dei 95 foglietti autografi del Diario, contenenti «a colpo d’occhio diversità notevoli» rispetto alla scrittura di Montale.
Non si fece attendere la replica non solo di Annalisa Cima, velatamente indicata da Isella come responsabile, ma anche e soprattutto quella di Rosanna Bettarini, editrice del libro postumo e quindi garante della sua autenticità. Quest’ultima ribattè con argomenti opposti e, paradossalmente, altrettanto convincenti: proprio gli evidenti richiami ad alcune opere precedenti sarebbero garanti della comune discendenza.
La querelle, arricchita anche da altri, autorevoli interventi, si è protratta per circa un anno, senza per altro arrivare ad una conclusione comunemente accettata. Ma si è fatta strada una soluzione ludica del caso: Montale stesso avrebbe organizzato la beffa, con un bellissimo e delicato gioco da prestigiatore, per suscitare una rissa da filologi.
Ed è qui che ritroviamo il caro poeta di Ossi di seppia. Stupire con quello che non ci si aspetterebbe e prediligere l’evocazione alla rivelazione: niente di più poetico e di più montaliano.