Sono passati quasi 3 anni da quando, il 22 ottobre 2017, Lombardia e Veneto hanno chiamato a raccolta i propri cittadini per esprimersi su un problema da sempre irrisolto: l’autonomia differenziata. Nel frattempo, Palazzo Chigi si è colorato di giallo-verde, poi di giallo-rosso, ma la domanda rimane la stessa: che fine ha fatto l’autonomia?
GLI ANTEFATTI
Lo scontro tra Governo e Regioni è una costante della politica italiana. A seguito della famosa riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dall’allora centrosinistra per provare ad intercettare il voto federalista del Nord in mano alla vecchia Lega di Umberto Bossi, lo scenario diventò incandescente. La Corte Costituzionale fu letteralmente invasa da un numero spropositato di conflitti di attribuzione tra Stato e regioni, mostrando come la materia del “regionalismo differenziato” fosse stata tutt’altro che chiarita.
Quindici anni dopo, la riforma costituzionale targata Renzi-Boschi propose un ritorno al “centralismo”, prevedendo di riportare in capo ai ministeri le venti competenze condivise con i governatori regionali. Tuttavia, la sconfitta del fronte referendario confermò la tendenza federalista, oltre a lasciare il problema irrisolto della riforma delle Province e delle Città Metropolitane pensata dal Ministro Delrio nel 2014.
Quando a Roma ormai l’affaire “autonomia” si pensava concluso, il Nord rispolverò la questione. Nell’autunno 2017, Lombardia e Veneto indissero due referendum consultivi per chiedere mandato di avviare, trattando con il governo centrale, il processo previsto all’articolo 116 della Carta Costituzionale. L’articolo 116 terzo comma prevede che, con legge ordinaria, si possano attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sulla base di un’intesa fra lo Stato e la regione interessata. La richiesta di maggiori competenze può riguardare le materie di legislazione concorrente come la giustizia di pace, l’ambiente, la tutela dei beni culturali, la scuola, la sanità e altre per un totale di ventitré materie.
A Lombardia e Veneto, però, si affiancò l’Emilia-Romagna, che decise di non spingersi fino al referendum consultivo, bensì di attivare la procedura in maniera più convenzionale.
Forti della netta vittoria referendaria (oltre il 95% di sì) e rassicurati dal cambio politico a Palazzo Chigi, Lombardia e Veneto spinsero per avviare serie trattative con il Conte I, nella persona del neoministro per gli Affari regionali Erika Stefani, in quota Lega e vicina alle istanze venete. Nonostante ciò, lo stallo tra Lega e Movimento 5 stelle all’interno dell’Esecutivo non fecero altro che rallentare i negoziati ed a consegnare il dossier “autonomia” all’attuale ministro del Conte II Francesco Boccia.
A complicare il tutto, è arrivata l’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19, che ha messo in luce come sia necessario ed urgente definire una volta per tutte la ripartizione di competenze tra lo Stato e le regioni.
IL 50ESIMO DELLE REGIONI
Sul punto, è tornato il Quirinale in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione delle regioni. Il Presidente Mattarella ha riconosciuto alle regioni il ruolo di “protagoniste attive, con lo Stato, per lo sviluppo delle condizioni di vita delle popolazioni italiane. […] si sono affermate come componente fondamentale dell’architettura istituzionale della Repubblica”. Nel solco di queste dichiarazioni, il Presidente della Repubblica ha incoraggiato il percorso intrapreso da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, a cui nel frattempo si sono aggiunte ufficialmente Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Lazio e Campania.
Il cammino – secondo Mattarella – “deve avere come scopo non la competizione tra Regioni o l’emarginazione di alcune, ma il raggiungimento di più adeguati livelli di efficienza”. È chiaro che non ci si poteva aspettare che parole molto misurate da parte del Presidente della Repubblica in veste di garante dell’unità del Paese, ma che costituiscono un passo in avanti per il raggiungimento dell’agognata “autonomia differenziata”.
IL TRIONFO DI ZAIA
Come è noto, la tornata elettorale dello scorso 20-21 settembre ha visto la “vittoria bulgara” del governatore Luca Zaia, neoconfermato per il terzo mandato consecutivo alla guida della Regione della Serenissima. Dopo neanche qualche ora dallo scrutino, Zaia ha dichiarato senza mezzi termini: “Qualcuno chiederà adesso qual è il mio obiettivo: l’obiettivo è uno, portare a casa l’autonomia. […] L’autonomia resta l’obiettivo principale, è la madre di tutte le battaglie. Come dico sempre, noi abbiamo fatto i compiti per casa; non abbiamo che da chiudere la partita con la firma dell’intesa con il Governo nazionale”. Parole che sicuramente trovano terreno fertile nello storico elettorato leghista ma che creano frizioni con gli alleati di centrodestra, in particolare con Giorgia Meloni da sempre insofferente sul tema.
È inutile dire, però, che il trionfo ottenuto da Zaia non fa altro che rafforzare l’istanza federalista nel partito di Salvini, che ora sarà costretto ad essere meno distratto sull’argomento, ed in seno alla Conferenza Stato-Regioni, con il pericolo per Stefano Bonaccini di vedersi scalzato proprio dal governatore veneto.
E ADESSO?
Arriviamo ad oggi. Il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, ha assicurato di essere pronto a portare una nuova legge quadro in Consiglio dei Ministri entro ottobre. In un’intervista al Sole 24 Ore, Boccia ha fatto sapere che la bozza di riforma consiste nell’attuazione del decentramento amministrativo, “sottraendo però le materie per cui dovranno prima essere individuati i cosiddetti LEP, ovvero i Livelli Essenziali delle Prestazioni.” Questo significa che le materie pesanti (scuole, trasporti locali e sanità) sarebbero sotto la lente d’ingrandimento del Governo centrale. Il problema è che ci sono regioni ricche ed efficienti e regioni che invece difficilmente riuscirebbero a garantire i LEP. Sul punto, il ministro stima che “per colmare questa distanza tra ‘ricchi’ e ‘poveri’ occorrerebbero tra i 70 e 100 miliardi’’. Cifra che corrisponde a grandi linee al disavanzo fiscale che le regioni del Nord denunciano di spendere a favore delle altre regioni. Il fulcro della riforma, pertanto, appare ancora fumoso e cresce la paura di tornare al punto di partenza.
La speranza per mettere mano alle questioni irrisolte risiede ancora una volta nel Recovery Fund. “Nei criteri di valutazione del Recovery Fund – spiega Boccia – abbiamo inserito tra gli indicatori di priorità anche i LEP. È un’occasione unica che ci consentirà di colmare un divario che rappresenta uno dei principali freni alla crescita”.
Dunque, la domanda posta all’inizio resta la stessa: che fine farà l’autonomia? Prevarranno le spinte riformiste auspicate o il gattopardismo?