Digitalia: viaggio nella palude digitale italiana

Pubblicato il 24 Settembre 2013 alle 14:14 Autore: Guido Scorza

L’Italia in digitale – ammesso che ve ne sia una – continua ad arrancare ed a rappresentare il fanalino di coda dell’Unione Europea in termini di attuazione dell’agenda digitale. Siamo ultimi o tra gli ultimi in Europa che si parli di uso di Internet, di digitalizzazione dei rapporti tra cittadini ed amministrazione o di diffusione delle risorse di connettività a banda larga.

Una lunga serie di primati negativi che minacciano di compromettere ogni giorno di più le chances del nostro Paese di giocare il ruolo da protagonista che meriterebbe nel mercato unico delle comunicazioni e dei servizi elettronici che l’Unione europea, nei prossimi anni, realizzerà con o senza di noi. Ci sarebbe bisogno di un’autentica “scossa digitale”.

Gli ultimi mesi – ma, forse, ormai, bisognerebbe dire gli ultimi anni – raccontano, invece, di unapolitica di attuazione dell’agenda digitale fatta di ordini, contrordini, freni, ripensamenti e tanta confusione.

Prendiamo, ad esempio, la questione dei soggetti che hanno o dovrebbero avere la responsabilità di attuare l’agenda digitale. Tanti, troppi. Una moltitudine di enti con competenze sovrapposte ed un esercito di generali sin qui incapaci di disegnare una strategia.

Abbiamo una cabina di regia per l’Italia digitale,una pletora di ministri, viceministri e sottosegretari con deleghe diverse in materia di digitale, un’agenzia per l’Italia digitale costituita d’urgenza nell’estate del 2012 ma ancora in stato di ibernazione in attesa dell’approvazione dello statuto che dovrebbe scongelarla e tanti altri enti inutili o scarsamente utili che si fa persino fatica a ricordare.

Senza parlare dell’ultima tragicomica ed imbarazzante vicenda che ha per protagonisti Agostino Ragosa e Francesco Caio.

Il primo nominato, Direttore Generale dell’Agenzia per l’Italia digitale nell’ormai lontano ottobre del 2012 ma ancora privo dei suoi poteri e costretto a firmarsi Commissario Straordinario della scioglienda DIGIT PA ed il secondo, nominato Mister Agenda prima dell’estate ed autorizzato a firmarsi – attraverso un decreto irrintracciabile sui siti istituzionali del Governo – Commissario di Governo per l’agenda digitale.

Due Commissari per la stessa agenda digitale. Difficile identificare un riparto di competenze tra i due ma assai più facile prevedere sovrapposizioni ed interferenze. Tanta, troppa confusione.

E poi quanto costa questo pachidermico apparato che dovrebbe traghettare il Paese fuori dalla palude digitale? Il compenso del direttore generale dell’agenzia per l’Italia digitale che dovrebbe essere – per legge – pubblicato sul sito della medesima agenzia, singolarmente manca all’appello.

Mentre Mister Agenda, Francesco Caio, ha scelto di mettere le proprie competenze a disposizione di Palazzo Chigi a titolo di “volontariato civile”, conservando, ad un tempo, la sua poltrona in Avio, il gigante aeorospaziale italiano di recente acquisito dal colosso americano General Electric. Una notizia, quella della gratuità dell’opera prestata da Mister Agenda che, nonostante la tentazione, non può essere salutata come una bella notizia: coordinare la politica digitale italiana non può essere un’attività da svolgersi come secondo lavoro e solo in nome di passione e patriottico spirito di servizio.

Prima o dopo o ci si stufa, lasciandosi travolgere dalle responsabilità del primo lavoro o si cede alla tentazione umanamente legittima di mettere a profitto la propria posizione anche se senza esagerare e nei limiti del lecito.

Non è un caso se, in un contesto come quello sin qui delineato sia più facile annunciare e raccontare – magari per legge o decreto legge – una rivoluzione digitale ormai prossima che realizzarla.

Sintomatica, sotto questo profilo, l’epopea del Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, annunciato dall’allora Ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera come “Decreto Digitalia”, ribattezzato poi – in un tentativo di stare con i piedi per terra [n.d.r. ma non abbastanza] “Decreto crescita 2.0” e rivelatosi poi, semplicemente, un “Decreto Crescita 0”.

Sono i numeri a parlare e lo fanno in modo assai più eloquente di qualsiasi parola.

Il decreto – come si era segnalato già all’indomani della sua approvazione – non conteneva che un lungo elenco di buoni propositi che avrebbero poi dovuto essere attuati da un interminabile sequenza di oltre cinquanta tra leggi, decreti e regolamenti la cui emanazione era stata affidata, in alcuni casi, ad oltre una cinquina di soggetti diversi tra ministeri, Autorità ed enti.

Oggi, a distanza di oltre un anno dal varo del Decreto Digitalia fu Digitalia, poi Crescita 2.0 e, quindi, Crescita 0 di quei cinquanta provvedimenti di attuazione ne sono stati varati quattro o cinque benché la totalità de termini di attuazione previsti nelle norme siano ormai scaduti, in qualche caso, da quasi trecento giorni.

L’Italia digitale è prigioniera di inutili sovrastrutture burocratiche, amministrative e normative e se non la si libera di corsa, rischiamo davvero di trasformarci in una zattera analogica alla deriva in un continente – quello europeo – che procede ormai, anche se non senza qualche ritardo, spedito verso un futuro in digitale.

E’ su questo e non sulle beghe di Palazzo – che riguardino la decadenza di decadenti uomini politici o il futuro di segreterie di partito senza partito – che, per una volta, sarebbe bello sentir confrontare governanti ed aspiranti tali su giornali, televisioni e, magari, web.

Si confrontino a voce alta sul futuro digitale del Paese e ci lascino poi scegliere se e chi tra loro ci sembra davvero in grado di disegnarne uno per il Paese.