Rom schedati illegalmente in Svezia, difficili colloqui di governo in Norvegia, la Finlandia alle prese con i conti pubblici e l’Islanda a caccia di investitori stranieri: sono giorni complessi, in Scandinavia.
La Svezia è ancora stordita per lo scandalo che l’ha travolta a inizio settimana: come svelato dalla stampa, la polizia ha gestito un registro dove oltre 4.000 persone d’etnia rom sono state schedate illegalmente.
Ci sono bambini – moltissimi, alcuni appena di due anni – personaggi della cultura, la maggior parte non ha mai avuto problemi con la giustizia: l’unico motivo per cui sono presenti su quella lista è la loro etnia d’appartenenza. “Quella rom è una comunità sottoposta a discriminazione ed esclusione sociale da molto molto tempo” ha dichiarato Erik Ullenhag, ministro dell’Integrazione, commentando con amarezza la notizia.
Il ministro della Giustizia Beatrice Ask ha chiesto pubblicamente scusa. Il premier Fredrik Reinfeldt da New York ha parlato di una cosa inaccettabile, sconvolgente se si pensa al numero di bambini coinvolti. Nils Muižnieks, Commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa, ha biasimato duramente il comportamento delle forze dell’ordine svedesi. Insomma una vera e propria bufera.
La vicenda è ancora tutta in divenire, probabile che qualche testa cadrà. Se e come questa storia coinvolgerà i più alti livelli politici lo si capirà nei prossimi giorni. Nel frattempo tutto è passato in secondo piano, comprese le grandi manovre che hanno animano il dibattito negli ultimi giorni della scorsa settimana.
Su tutte la ‘pazza idea’ dei partiti rosso-verdi e dei Democratici Svedesi dell’ultradestra: far fronte comune per bloccare le linee di politica economica del ministro Anders Borg e la sua proposta di ulteriori tagli fiscali. Ed è un problema bello grosso, per Reinfeldt, visto che il suo è un governo di minoranza.
In Norvegia invece vanno avanti i colloqui per la formazione del nuovo governo. Erna Solberg, leader del partito della Destra e probabile futuro primo ministro, sta ancora cercando di incastrare tutti i pezzi – e quando scriviamo pezzi intendiamo dire la Destra, il Partito del Progresso, il Partito Liberale e il Partito Cristiano Popolare.
Su una cosa sembra esserci accordo: mettere a punto una revisione della mappa amministrativa della Norvegia, con molti comuni che potrebbero essere fusi. L’obiettivo è migliorare offerta di servizi per i cittadini e allo stesso tempo ottimizzare le risorse a disposizione.
Ma a parte questo, tutto il resto è un rebus di difficile soluzione. La stessa Erna Solberg ammette che difficilmente nascerà un governo in Norvegia a quattro. A dividere i partiti restano le solite questioni irrisolte. Un esempio? L’immigrazione, una barriera forse più ideologica che effettiva: le due forze di centro sono decise a tenere ben chiare le distanze dal Partito del Progresso.
Potrebbe essere solo questione di ore, forse ancora un giorno o due, e poi si saprà qualcosa di più preciso. Un chiarimento era atteso già per la giornata di ieri, con il Partito Popolare Cristiano a un passo dall’abbandonare il tavolo.
Nel frattempo c’è chi guarda avanti – o almeno prova a farlo. Jan Tore Sanner, numero due della Destra, ha chiesto all’attuale ministro delle finanze Sigbjørn Johnsen qualche informazione in più sui conti pubblici. Ma ha ricevuto un no come risposta: nessun aiuto dal governo uscente. I numeri verranno diffusi come prassi insieme alla presentazione del bilancio.
Una posizione poco apprezzata dalla maggioranza di centrodestra che governerà il paese: “Non abbiamo chiesto anticipazioni sulla politica economica” ha commentato seccato Solvik-Olsen, del Partito del Progresso, “ma numeri complessivi”.
Anche in Finlandia è stata una settimana complicata. Il primo ministro Katainen ha ribadito l’intenzione di impedire che il rapporto deficit/Pil si assesti oltre il 60 per cento stabilito dai parametri europei: probabile che nella primavera dell’anno prossimo il governo decida di varare una manovra economica, l’ennesima della legislatura.
Certo, se si confermassero le previsioni diffuse dall’istituto Pellervo, la Finlandia non avrebbe bisogno di stringere ulteriormente la cinghia: l’ente di ricerca economico ha infatti dichiarato di prevedere una crescita del 2 per cento per l’anno prossimo, e un rapporto debito/Pil sotto la soglia del 60 per cento.
Nel frattempo sul fronte dei sussidi di disoccupazione l’esecutivo vorrebbe introdurre criteri più stringenti: i disoccupati avranno meno appigli per non accettare proposte di lavoro, pena corpose sforbiciate al sussidio. Da gennaio a settembre sono state 8.500 le persone che hanno perso il lavoro. Meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (erano state 12.000) ma comunque un numero che tiene alta la disoccupazione nel paese: 7,1 per cento ad agosto.
Tutt’altro clima in Islanda, almeno a sentire le parole del premier Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, che da Londra ha messo sul tavolo i successi dell’isola: l’Islanda ha fatto tanta strada, ha detto, e sarà il primo paese ad uscire dalla crisi. Non è solo retorica, è politica. Anzi: è finanza.
Gunnlaugsson va a caccia di investitori stranieri, con l’obiettivo di portarne i denari sull’isola. Il tempismo non è casuale, visto che l’Islanda in questa fase sta facendo registrare il più basso livello di investimenti esteri negli ultimi anni.
Sul fronte delle relazioni estere, Sigmundur Davíð Gunnlaugsson ha ribadito che Reykjavík ha intenzione di stringere rapporti sempre più stretti con Stati Uniti ed Europa. Ma il capitolo che avrebbe dovuto condurre l’Islanda dentro l’Unione europea è un capitolo che rimarrà incompiuto. Il premier ha ribadito che il suo governo ha preferito prendersi una pausa.
Più che una pausa, però, quella dell’esecutivo islandese sembra una decisione definitiva. Quello tra Reykjavík e Bruxelles per il governo è un matrimonio che non s’ha da fare.