Un ricordo che affiora spesso nella mia mente viene dal Ruanda. A distanza di venti anni quell’esperienza agita ancora i miei pensieri e, di volta in volta, ne emergono frammenti.
Nel disastro che era Kigali avevo trovato una casa abbandonata su una collina che dominava il centro della città. Assieme ad alcuni colleghi ne avevo fatto il mio campo base. Era un quartiere residenziale e la casa era una villa con giardino. I proprietari, probabilmente membri dell’establishment hutu, erano fuggiti per paura delle vendette dei tutsi.
Nelle notti quasi insonni che passavo in quella villa mi era capitato spesso di pensare alla vita che vi si svolgeva. I proprietari erano ricchi, nei quartieri popolari la gente si sognava una casa così. C’era anche la piscina, vuota naturalmente, e diversi congelatori nelle cantine, ancora pieni di cibo. E poi gli alloggi per la servitù, vicino all’entrata del giardino con l’erbetta tagliata rasa.
Da quella posizione la sera potevo vedere la città. Non c’era la luce e buona parte degli abitanti erano fuggiti, ma Kigali viveva. Strade, quartieri, chiese erano ancora pieni di cadaveri. Erano talmente tanti che la popolazione faceva fatica a seppellirli tutti. Era un lavoro che avrebbe portato via giorni, ed era una lavoro straziante perchè chi aveva perso familiari cercava di trovarli, almeno tra i cadaveri.
Mi ritrovavo molte sere a guardare la città buia sotto di me dalla quale si levavano colonne di fumo e, qua e là, baluginavano fioche luci di fuochi accesi. Immaginai che fossero fuochi fatui perchè quella conca sulla quale era cresciuta Kigali era come un immenso cimitero a cielo aperto.
Quelle visioni notturne, durante la giornata, mi facevano immaginare di camminare sui cadaveri. Eppure da quelle visioni notturne mi arrivò anche speranza: una sera vidi sulla collina di fronte una luce blu elettrica che lampeggiava e cambiava sfumature di colore. Cos’era? La rividi anche la sera successiva e poi quella dopo ancora. La segnalai ai miei colleghi e, incuriositi, un giorno andammo a vedere… era una discoteca! In quel cimitero a cielo aperto? Incredibile!
Era una discoteca di quelle improvvisate: un impianto voce raffazzonato, un frigorifero, le luci psichedeliche e un generatore. Non considerai quella discoteca un oltraggio ai morti. No, niente affatto. Lo considerai un inno alla vita. L’Africa anche di fronte al genocidio, all’olocausto, alla negazione della vita, sceglieva di vivere. Sceglieva la speranza che l’uomo potesse, un giorno, fare qualcosa di buono.