L’ultimo caso di intervento delle forze dell’ordine e della magistratura sugli esiti di un concorso universitario, avvenuto poche ore fa presso l’ateneo di Messina, sta riaccendendo la classica polemica sulla scarsa impermeabilità del sistema di reclutamento accademico al malaffare. Nella narrazione diffusa, “baroni” si intrecciano coi “figli di qualcuno”, in una geremiade generale che arriva inevitabilmente alla conclusione che i problemi della nostra università nascono dal fatto che in Italia siamo meno onesti che altrove. Il pettegolezzo concorsuale diventa così un genere letterario, un discorso retorico buono per tutte le stagioni con qualche aggiustamento di comodo, in modo da non essere mai falsificabile: chi perde i concorsi è sempre meritevole, chi li vince sempre raccomandato, anche se spesso, in concorsi diversi, si è trattato della stessa persona, improvvisamente passata dallo status di genio incompreso a quello di colluso col potere; allo stesso modo, i casi di intervento della forza pubblica sono guardati come il possibile inizio di una nuova primavera, nella convinzione peraltro insostenibile che irregolarità formale della procedura concorsuale e scarsa qualità della scelta coincidano.
Nel migliore dei casi, questi discorsi colgono i sintomi di un sistema, non le cause. Abbiamo visto, in effetti, che i concorsi universitari “arrangiati” per raccomandazione in Italia sono una realtà. Ma quale può essere la causa? Derubricare tutto individuando nella disonestà un nostro “carattere nazionale” è un po’ poco, per chi come noi precari della ricerca pretende di essere pagato per svolgere un lavoro scientifico. Forse è il caso di provare ad andare più a fondo.
A mio avviso, un primo problema di fondo si trova nel fatto che gli atenei hanno rappresentato un “campo di tensione” tra stato centrale e realtà locali fin dai primi anni postunitari. L’ampliamento a tutto il regno della legge Casati imponeva infatti un sistema universitario unico, sotto controllo ministeriale, per tutto il paese, e secondo una tale logica doveva essere selezionato il personale per i ruoli d’insegnamento. D’altro canto, però, le università attive nella Penisola precedevano per presenza e radicamento il nuovo stato, erano da secoli soggette a legislazioni e regolamenti profondamente diversi, avevano un ruolo sociale nelle realtà locali di riferimento, e riuscirono (per vie tortuose e attraverso la bocciatura di altri modelli istituzionali alternativi) a fare in modo che le procedure di assegnazione dei posti restassero sempre profondamente legate alle necessità della singola sede e alla singola facoltà. Niente possibilità di chiamata diretta, dunque, perché i concorsi avvenivano con commissione ministeriale, ma nemmeno grandi prove nazionali per l’ingresso ai ruoli, e, soprattutto, la commissione era spesso frutto essa stessa di un compromesso tra “sistema” nazionale e sede locale.
Semplificando al massimo il discorso, negli anni precedenti la massificazione degli studi universitari e il necessario aumento degli organici questa situazione non produceva chissà quali distorsioni, dal momento che un po’ ovunque nel mondo occidentale le ammissioni ai ruoli erano il frutto della scelta di un piccolo numero di specialisti, che si conoscevano più o meno tutti personalmente, quindi un sistema di reclutamento valeva l’altro, e si risolveva in una cooptazione per lo più accettata. Però, a differenza di altri modelli (che pure hanno i loro problemi, non crediamo sempre che all’estero sia il paradiso) quello italiano non si è adattato ai profondi mutamenti nel ruolo sociale dell’università avvenuti negli ultimi 40-50 anni. In sostanza, i (poco) diversi sistemi di reclutamento che si sono succeduti nelle varie riforme e riformine dell’ultima trentina d’anni hanno mantenuto intatto un equilibrio che i docenti universitari hanno gelosamente custodito chiudendosi a riccio verso qualunque tentativo di modifica: dal punto di vista funzionale, il sistema dei concorsi garantisce il massimo di discrezionalità ai docenti, con il minimo di responsabilità delle scelte. Da un lato con un concorso a un posto si potrà scegliere chiunque, inventando i criteri giusti ex post; dall’altro, se i propri dipendenti lavorano male il dipartimento non ha alcuna responsabilità nella propria scarsa qualità, visto che non ha direttamente assunto nessuno. La ragione per cui si riesce a mantenere un equilibrio così favorevole verso la corporazione universitaria è la stessa per cui in Italia gli ordini professionali, nati per controllare la qualità dei loro aderenti e quindi per rendere la loro vita lavorativa più difficile, diventano inevitabilmente strumenti di protezione degli iscritti rispetto a chi non lo è e di promozione familiare al loro interno: lo stato italiano, pur costruito nel corso del tempo su un modello accentratore e “interventista” in tutti i campi, è sostanzialmente debole, e non riesce a imporre alle corporazioni e ai gruppi di potere la propria autorità. Peggio, per sopravvivere elemosina il loro consenso divenendo il luogo di espressione della loro volontà e di tutela dei loro interessi.
In conclusione, dal punto di vista strettamente interno agli ordinamenti universitari per una soluzione alla ormai completa delegittimazione del nostro sistema concorsuale si deve agire imponendo un nuovo ordinamento per il reclutamento, o minimizzando la discrezionalità dei selezionatori (in una parola, col modello dei “concorsoni” per coorti annuali alla francese), o massimizzando la responsabilità dei dipartimenti, a cui sarebbe lasciata più o meno mano libera per le assunzioni ma che poi dovranno rendere conto della loro efficienza al momento di chiedere i soldi per sopravvivere, e chiudere se non saranno sufficientemente affidabili per l’investimento (in breve, con il modello inglese, per restare nell’ambito di un sistema in cui il ruolo dello stato nell’istruzione superiore resta centrale). Entrambi i sistemi, come dicevo, hanno comunque dei difetti. Il primo è molto macchinoso e spesso troppo rigido nei criteri di scelta, perché si propone di individuare nei candidati in forma quasi assoluta un “merito” di cui non esiste alcuna giustificazione teorica. Il secondo è sempre esposto al rischio di nuove derive dirigiste per la tendenza a stabilire per decreto graduatorie e classifiche di qualità che scarichino sul “sistema” le responsabilità delle scelte dei dipartimenti peggiori, oltreché difficile da applicare in un paese dove buona parte del mercato del lavoro intellettuale o amministrativo è iperprotetto e quindi inaccessibile come ripiego a chi fallisce la carriera accademica. Però l’emersione di questi difetti non dovrà essere ragione sufficiente per una restaurazione dell’antico, come quelle a cui periodicamente guarda chi non è soddisfatto dell’università di oggi, senza pensare che se oggi le cose vanno male è proprio perché la nostra università è ancora quella di ieri.
In ogni caso, qualunque scelta si faccia tra le due, essa potrà essere messa in opera da un governo deciso ad andare fino in fondo alla questione, senza fermarsi a questioni che lasciano il tempo che trovano come la governance e altre sciocchezze da legge Gelmini. Esso infatti dovrà cambiare tutti gli elementi necessari, dalle forme di finanziamento alle tutele per gli impiegati di ruolo (gli errori, prima che sia troppo tardi, devono essere corretti, quindi gli assunti che non rendono quanto devono si licenziano, non si aspetta che vadano in pensione). Soprattutto, dovrà avere una visione d’insieme dei problemi, perché i limiti del reclutamento universitario si ripetono ovunque, e risolverli solo negli atenei sarebbe inutile senza un più generale mutamento di indirizzo in tutti gli ambiti professionali. Alla fine, come dicono le parole stesse, la soluzione a problemi strutturali avviene con soluzioni di natura strutturale, effettuate da un governo che dovrà essere abbastanza legittimato sul piano dell’opinione pubblica e forte da poter distruggere una corporazione senza lasciarsi impietosire dai suoi lamenti mentre le sta schiacciando il cervello sotto il tallone.
Del resto una società libera ed efficiente, inferiva a più riprese un tale che se ne intendeva come Luigi Einaudi in una tarda raccolta di interventi che con grande preveggenza aveva deciso di intitolare Prediche inutili, non nasce dall’indebolimento delle istituzioni ma dal loro rafforzamento rispetto agli altri centri di potere.