L’invito a dimettersi dal governo, recapitato da Berlusconi ai propri ministri, sancisce la vittoria della linea dei “falchi” all’interno della rinata Forza Italia.
Una decisione presa da un vero e proprio gabinetto di guerra nel bunker di Arcore, senza alcun dibattito interno e partendo dal presupposto che il vecchio PdL (e i suoi gruppi dirigenti) sia ormai del tutto azzerato.
Dalla modalità con cui è arrivato l’aut-aut berlusconiano, più che dalla decisione in sè, nascono le perplessità del fronte governativo interno al partito. Non c’è solo Alfano che si dichiara “diversamente berlusconiano” (che non vuol dire “esco dal partito”, ma l’esatto opposto: noi siamo i “veri berlusconiani”), ma anche le dure prese di posizione di Quagliariello, Lupi, De Girolamo e Lorenzin. Tutti berlusconiani a prova di bomba che però non vogliono farsi dettare la linea politica da “un ex An, un ex Pri, un ex radicale e un ex comunista” (Santanchè, Verdini, Capezzone e Bondi).
I propositi di Letta, che per essere tali devono incrociarsi con una forte spaccatura interna al PdL capace di portare alla scissione almeno un quarto dei senatori berlusconiani, si scontrano con un’impostazione quanto mai padronale del partito che scoraggia iniziative di tipo autonomistico in seno al centrodestra italiano (Fli e la morte sul nascere Italia Popolare insegnano). A maggior ragione se lo scontro non è tanto la decisione ma le modalità con cui è stata presa (senza consultare Alfano e Co.).
In questo scenario un governo in grado di durare fino al 2015 (giravolte improvvise da parte di Berlusconi) non sembra avere margini di manovra e il fronte istituzionale già si prepara all’ipotesi di un governo provvisorio in grado di varare due provvedimenti fondamentali: legge di stabilità e legge elettorale.
In uno scenario così frammentato molti invitano i settori moderati del centrodestra, in maniera anche abbastanza ingenua, a rescindere il cordone ombelicale dal berlusconismo. Questo in quanto con il radicalismo in atto in Forza Italia aprirebbe una situazione di vuoto politico che potrebbe riempire un nuovo schieramento moderato. Un ragionamento che si basa su molti dati demoscopici secondo cui una caduta anticipata di questo governo sarebbe vista con negatività da gran parte della cittadinanza italiana (e dal 70% degli elettori del PdL).
Il grande tema però è proprio questo: in una situazione in cui Alfano sembra criticare una determinata area del partito, e in uno scenario in cui Beppe Grillo si diverte ad inscenare manifestazioni barricadere davanti alla vigilanza Rai, sembra esserci soltanto una forza politica in grado di mantenere una certa dose di equilibrio (essendo uno dei tre perni del sistema) e al tempo stesso di potenziale capacità espansiva: il Pd.
Se effettivamente c’è un vuoto politico, se effettivamente il PdL non è in grado di staccarsi da Berlusconi, allora la palla potrebbe passare al fronte democratico che potrebbe emergere in quanto forza dall’alta caratura “istituzionale”, unico pilastro di un sistema che può garantire il mancato commissariamento (a colpi d’austerità) da parte della Troika e una nuova legge elettorale (tema molto sentito dalla cittadinanza tutta).
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Se il centrodestra sceglie la strada dell’isolamento toccherà al centrosinistra sfruttare le praterie lasciate indifese dal fronte berlusconiano, non ponendosi troppi problemi di carattere ideologico ma, all’insegna di un sano pragmatismo, accreditandosi come vera e propria “forza della nazione” in grado di rappresentare anche istanze del tutto plurali o diverse tra loro in frangenti storici complessi.
Senza voler compromettere un impianto di tipo bipolare, motivazione per cui è nato lo stesso partito, il Pd dovrebbe candidarsi ad essere il partito “maggioritario” del sistema nonché la sua stessa costante. All’insegna di un approccio che metta al centro il rispetto dell’impianto costituzionale italiano che altre forze politiche, radicalizzandosi e quindi perdendo seguito, intendono mettere in discussione.
Una forza politica di centrosinistra ma che, per paradosso, mette al secondo posto la sua collocazione nel sistema per candidarsi a rappresentare tutte le istanze presenti nel paese. Il partito della nazione, appunto. Una scelta forse anche obbligata e per certi versi non troppo dissimile dall’approccio “turiamoci il naso, votiamo Dc”. Ma che, a differenza della Prima Repubblica, trae la sua legittimità dal voto e da un assetto di tipo bipolare.
In uno scenario di questo tipo, a maggior ragione con un PdL sempre più consapevole dell’ineluttabilità del proprio leader, il Pd potrebbe svolgere quel ruolo che per decenni hanno svolto il fronte gollista e pompidouiano in Francia (sul lato destro), il Partito Rivoluzionario Istituzionale in Messico (sul fronte “centrista”) e il Partito Repubblicano del Popolo in Turchia (sul lato sinistro).
Ma il primo interesse è la rappresentanza dei cittadini tutti e del paese. Attraverso uno strumento: la difesa dell’impianto della carta costituzionale del 1948. Il tutto all’insegna di un approccio di tipo riformista che, come insegnano anche le ultime elezioni politiche col minimo storico registrato dal partito, rappresenta l’unica opzione a scapito di una sinistra “d’antan” in grado di rappresentare molto spesso solo interessi già consolidati (ergo a difesa di ceti “privilegiati”, minoritari e del tutto massimalisti.
Un partito dunque che sì ha una collocazione, che sì lotta per la contendibilità della leadership del paese ma che poi è in grado di governare per lunghe stagioni politiche. Proprio perché rappresenta “semplicemente” la democrazia. Proprio perché rappresenta semplicemente l’Italia e il suo profondo spirito. Al riparo di qualsiasi tipo di estremismo.