Gli ultimi giorni in Scandinavia possono essere riassunti con una parola: difficoltà. Perché a guardare quello che sta accadendo nei paesi del Nord Europa, ciò che si vede è proprio questo: governi che faticano a carburare, come in Islanda, governi che paiono essere arrivati al capolinea – succede in Svezia – o leader politici in Danimarca che non piacciono più agli elettori. A Oslo, invece, le difficoltà sono a monte visto che lì un esecutivo è ancora in costruzione.
In Norvegia infatti i colloqui per la formazione del nuovo governo sono entrati nella fase due: quella più delicata. L’esecutivo sarà formato dalla Destra e dal Partito del Progresso, il Partito Liberale e il Partito Cristiano Popolare hanno deciso di dare l’appoggio esterno. Per Erna Solberg, leader della Destra e futuro primo ministro, c’è ora da concordare un percorso politico con Siv Jensen, a capo del Partito del Progresso.
Otto ministeri dovrebbero andare al Partito del Progresso, dodici alla Destra (o sette e tredici): ma a parte la contabilità politica, tutta da verificare, è il resto che conta. E vada come vada, il lavoro del prossimo governo potrebbe essere molto difficile. Sulla carta i progetti sono tanti e ambiziosi. Forse troppo.
La pensano così molti economisti, convinti che alla fine l’esecutivo non sarà in grado di trovare tutte le risorse per dar seguito a quanto promesso: perplessità ad esempio c’è sull’intenzione di abbassare le tasse e insieme allungare la coperta dei servizi sociali e migliorare le infrastrutture in giro per il paese.
E questo è solo uno dei problemi: la convivenza tra Destra e Partito del Progresso appare materia tutta da scoprire, e molti analisti in Norvegia sono pronti a scommettere che il governo nascituro non completerà la legislatura, arenandosi – e cadendo – prima del termine naturale dei quattro anni.
Guai grossi li sta vivendo anche Helle Thorning-Schmidt, premier laburista a capo del governo della Danimarca. Perché non solo la sua maggioranza resta indietro nei sondaggi (44 per cento contro il 56 dei conservatori; socialdemocratici al 18,7 per cento, era stato 24,8 alle elezioni di due anni fa) ma è proprio su di lei che si addensano le nuvole più nere.
Sondaggi e analisi ancora una volta svelano come Helle Thorning-Schmidt sia poco amata tra gli elettori socialdemocratici, quelli che dovrebbero essere i suoi elettori. Anzi: un suo allontanamento gioverebbe addirittura al partito, ne sono convinti in tanti.
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Negli ultimi giorni Helle Thorning-Schmidt ha provato a serrare le fila. Tentativo vano. Non piace ai membri laburisti (così come non piace a molti elettori) la politica economica e sociale del governo. L’accusa è vecchia di mesi e ciclicamente salta fuori: aver fatto e fare scelte più a destra del precedente governo di centrodestra.
L’exit strategy già c’è e se ne parla ormai da tempo: appoggiare Thorning-Schmidt per un incarico a Bruxelles da individuare dopo le elezioni europee. Nei palazzi Ue la premier danese è stimata, sarebbe un modo per uscire di scena evitando di fare i conti con un fallimento politico casalingo.
Ma la stretta attualità impone risposte immediate, considerato che mancano meno di due mesi alle elezioni amministrative in programma a novembre. Un appuntamento al quale i socialdemocratici devono arrivare pronti. A complicare le cose c’è il Partito Popolare Danese, la più a destra delle forze politiche, che nei sondaggi è ormai a ridosso dei laburisti.
Il fatto è che il leader Kristian Thulesen Dahl è visto dagli elettori come un ipotetico primo ministro affidabile, e questo potrebbe scompigliare le carte nel quadro politico danese dove fino a oggi il Partito Popolare ha giocato un ruolo importante ma comunque di secondo piano: in pratica più di lotta che di governo. Il ‘nuovo’ Partito Popolare invece ha una dialettica diversa, più sfumata, e molti elettori socialdemocratici non ne sono più spaventati.
Ma in giro per la Scandinavia si fatica a trovare un governo in carica che se la passi bene. Prendiamo la Svezia, ad esempio. In un sondaggio DN/Ipsos l’esecutivo di centrodestra resta sempre lontanissimo dall’opposizione rosso-verde: 38,8 per cento contro 51,7. Solo il 28 per cento degli elettori dice di credere in un terzo mandato per l’attuale premier Reinfeldt, il cui partito dei Moderati scivola al 24,7 per cento. I laburisti sono lassù al 34,4 per cento.
Si tratta di tendenze che si stanno radicando e che mostrano plasticamente come per l’attuale maggioranza di centrodestra sarà impresa titanica arrivare alle elezioni dell’anno prossimo con qualche possibilità di vittoria. Reinfeldt governa la Svezia dal 2006, una certa usura è naturale come è naturale la volontà degli elettori di avere facce nuove.
Questo discorso non vale invece per l’Islanda, altro paese dove il governo fatica a decollare. Politicamente, l’isola oggi appare spaccata in due: un sondaggio Gallup svela come il 50 per cento degli elettori sia pronto a confermare la fiducia al governo eletto la scorsa primavera. Per strada sono andati perduti dodici punti percentuali rispetto al primo mese di lavoro del nuovo esecutivo. E l’apertura dei lavori in Parlamento è stata salutata con una manifestazione di protesta che ha richiamato alcune centinaia di persone – ricordiamoci che l’Islanda conta in tutto 320mila abitanti.
All’origine della manifestazione il malcontento per l’operato del governo di centrodestra, soprattutto per i tagli al welfare e per i ritardi nella gestione dei debiti delle famiglie, un’azione che l’esecutivo nel corso della campagna elettorale aveva indicato come una assoluta priorità. La proposta di bilancio presentata dal ministro delle Finanze Bjarni Benediktsson ha due principali gli obiettivi: equilibrio nelle finanze statali e stop all’accumulo del debito. I cittadini però sembrano aspettarsi anche altro.