E’ questione di (fanta)politica. Cosa sarebbe successo se…avesse vinto Dukakis? (un racconto di fantapolitica).
Huston, Texas, novembre 1988. Il vicepresidente Bush si svegliò, come sempre, presto quella mattina. La moglie ancora dormiva e, tentando di non svegliarla, si mise la vestaglia ed abbandonò la camera da letto. Scese al piano inferiore della sua casa e si preparò un “american-coffe” per essere sveglio e pronto per l’importante giornata. Mentre sorseggiava il caffè, lasciò la cucina e avvicinandosi verso il soggiorno si accostò quatto quatto accanto ad una finestra del corridoio. Con solerte discrezione spostò leggermente la tenda della finestra verso sinistra e diede un’occhiata al panorama. Nonostante fosse riscontrabile una temperatura non certo calda, il sole del Texas risplendeva come in una giornata estiva, facendo venir la voglia di fare una bella passeggiata al parco o in bici con la famiglia. Guardando verso il sole il vicepresidente sorrise: l’importante giornata iniziava bene. Anche dal punto di vista meteorologico. Continuando a sorseggiare il caffsi beava al al pensiero della grandezza della società americana, ed era già desideroso, nonostante non avesse ultimato la sua bevuta mattutina, di un buon cheesburgher con ketchup per pranzo. Apice e massima rappresentazione della miglior cucina del mondo. Con questi pensieri socchiuse la tende della finestra, sempre attento a non farsi vedere dai numerosi giornalisti che attendevano sotto con macchine fotografiche e microfoni.
[ad]Boston, Massachusetts, novembre 1988. Micheal Dukakis si trovava nel suo appartamento, sveglio già delle prime ore della mattina. La conclusione della campagna elettorale era per lui un grande motivo di gioia: il troppo stress accumulato lo rendeva nervoso, a detta anche dei suoi familiari, e sentiva la profonda necessità di rilassarsi un po’. Michael aveva capito che le cause della sua stanchezza non risiedevano che in lui: quanto volte, tra un viaggio e l’altro in aereo o in treno, sentiva la profonda necessità di lasciarsi andare e farsi un paio di ore di meritato sonno… e invece no! Con stoico senso del dovere continuava a ripassare i suoi prossimi discorsi come un diligente studente universitario che, come direbbero alcuni economisti per non perderci nel “costo opportunità”, utilizza anche il tempo sui mezzi pubblici tra università e casa per ripassare gli appunto appena presi. Era andato a dormire presto la sera prima, e dopo 11 ore di sonno filato si era svegliato ancora abbastanza presto. Ora doveva solo decidere cosa fare. Il seggio non si trovava che a pochi metri di distanza. Del resto lui era già in camicia con la cravatta annodata, e la giacca sul letto non aspettava che di essere indossata. “Ma si dai!” si disse fra se e se Michael “andiamo a votare, andiamo incontro ai giornalisti” sentendosi un crociato nella sua battaglia più importante. Scese le scale e decise di tirare il naso fuori dal suo appartamento. Nonostante tutto potè notare come già alle primissime aperture della sua porta gli desse fastidio il rumore e la luce dei flash.
Huston, Texas, nella notte. “Noi guardiamo solo Fox news!”. Così una graziosa militante del Wyoming, che si era fatta molti metri per essere presso quel lussuoso albergo rispose ai giornalisti che chiedevano a lei, giovane militante, cosa ne pensasse dei primi dati della Cnn che davano in netto vantaggio il candidato democratico Dukakis. Era una ragazza a tratti incantevole. Con i suoi occhialetti da prima della classe, e quella bella treccia castana, appariva come la compagna di banco ideale in un bel college del cuore americano. Era una militante che si era molto dato da fare in quella campagna: i ricordi della presidenza Reagan per lei erano stati gli alimenti della sua formazione politica. Ma in quella spocchiosa risposta non si poteva non notare che quel grazioso sorriso era un tantino tirato.
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[ad]Boston, Massachusetts. “Non voglio sentire una parola! Chi parla qua dentro viene subito cacciato fuori…” così tuonava un grasso uomo con un tesserino del partito dell’asinello sulla giacca in quella che i media avevano già definito la “war room” democratica. Mentre la folla già esultava presso il comitato Dukakis per i dati sempre piu positivi, il candidato si trovava con i proprio affetti familiari presso quella segreta stanza. Si toccava il ciuffo perennemente, e guardava senza proferire parola la televisione. Il suo volto non pareva subire variazioni come se, in quel preciso istante, fosse assolutamente isolato dal mondo circostante. Una caratteristica che avrebbe fatto preoccupare chiunque abbia seguito almeno una lezione di medicina presso qualsiasi ateneo statale. Continuava imperterrito a seguire i risultati, mentre chi lo circondava sapeva, forse, che si stava delineando un miracolo.
Huston, Texas. Il silenzio più totale. All’ingresso del vicepresidente presso la sala dove lo attendeva il popolo repubblicano, dopo un primo applauso a lui ed ai suoi familiari venuti sul palco, un silenzio di tomba attanagliava la sala. Il vicepresidente Bush sapeva che in quel momento la situazione era anomala. Un silenzio del genere è alquanto raro, figurarsi in una sala con centinaia di persone. Non apparivano tra la folla bandierine americane o cartelli “Bush-Quayle”. Solo qualche cappello da cowboy rendeva meno funerea la vista. Decise di velocizzare la cosa, di eliminare la sofferenza: prese subito la parola: “Cari amici, mi spiace dirvelo. Ma abbiamo perso le elezioni. E’ stato comunque un splendido viaggio insieme a voi. Dobbiamo però fare gli auguri al nostro nuovo presidente”. I fischi che arrivarono portarono la situazione dal male al peggio.
Boston, Massachusetts “Du-ka.kis! Du-ka.kis!” Mille di persone in festa salutavano il loro candidato: Michael Dukakis, 41° presidente degli Stati Uniti d’America. Era stata senza dubbio l’elezione più incredibile della storia, la più insperata e imprevedibile. Dukakis era salito sul palco con la famiglia e i suoi collaboratori da 7 minuti ma, pur volendo, non era riuscito a proferire parola per il troppo baccano del festeggiamento. Signore in lacrime che no, proprio non ne potevano più di Reagan e della sua politica, ora avevano davanti al loro l’anti-divo per eccellenza. Perché il sogno americano non consisteva solo nell’eleggere un ex attore presidente, ma anche un “meticcio” dalle origine greche. Questo testimoniava che l’America era davvero un grande paese, il paese del sogno. “Care amiche e cari amici…abbiamo vinto!” tuonò alzando il pugno chiuso (destro) mentre la folla fu galvanizzata ancor di più da tale frase. “E’ una grande soddisfazione per me e per voi…una gioia immensa, cambieremo l’America, un paese dove tutto è possibile, ed io sono anche il rappresentante della vostra storia, della storia di tutti noi. Voi stasera avete vinto e avete cambiato in positivo questa storia!”. Anche questa frase fu accolta con un’ovazione di circa 4 minuti. Era stato abile a pronunciare la sua ultima frase, era bravo allora a parlare a braccio! Se avesse avuto questa consapevolezza anche in campagna elettorale!
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[ad]Da un libro di storia edito nel 2011: la presidenza Dukakis fu caratterizzata da due fasi: una prima di forte audacia da parte del presidente eletto e del suo staff che subito incominciarono a lavorare, già nei momenti di attesa per il giuramento, cercando di far comprendere subito che l’aria in America era cambiata. Uno dei primi provvedimenti del presidente Dukakis, fu proprio quello di smettere di “gonfiare” il bilancio americano troppo deregolarizzato e anzi il presidente stesso si fece promotore di una maggiore vigilanza della Sec (la consob americana) non solo dei mercati finanziari ma di tutta l’industria. Il ministro dell’economia Al Gore, che aveva sfidato il presidente alle primarie dell’88, considerava assurdo competere e “sfiancare” il gigante sovietico con questa logica economica della reaganomics. Di conseguenza anche in politica estera si crearono veri momenti di distensione tra l’Urss e gli Stati Uniti. Grazie ad un superattivismo del segretario di stato Joe Biden e del ministro degli esteri sovietico Shevarnadze, Dukakis e Gorbaciov si incontrarono spesso lavorando, come disse Dukakis, sulla falsariga del “Salt II” di carteriana memoria. Nonostante tutto non tutti i propositi del presidente andarono a buon fine, anzi: la seconda fase, iniziata secondo alcuni storici verso la fine del 1989, fu un vero disastro. Gore si trovò con una grave crisi causata da una serie di scioperi di massa di operai che, questo aveva innestato la campagna mediatica dei repubblicani, aspiravano ad un principio del “lavorare di più per guadagnare di più”. Erano scioperi autonomi ma organizzati, e si scagliavano contro il sindacato stesso che secondo i leader della rivolta rappresentava “una corporazione di comunisti antiliberale interessata solo alla propria carriera politica”. Molti furono gli scontri tra polizia e manifestanti, fino a quando il 20 febbraio del 1990, secondo alcuni a causa di alcuni reparti deviati della polizia, alcuni agenti spararono causando 11 morti tra i manifestanti a Des Moines. Subito si creò una manifestazione spontanea davanti alla casa bianca al grido “aridatece i neocons!”. Dukakis, che si trovava in visita a Praga in quei giorni, fece di tutto per tornare al più presto negli Usa, ma le autorità del luogo crearono problemi facendo ostruzionismo sul viaggio. In quel periodo Dukakis viveva anche una crisi familiare, la moglie voleva lasciarlo in quanto dopo una giornata di lavoro egli era stanco morto (uno dei suoi punti di riferimento politico era Lyndon Johnson) e non riusciva nemmeno a cenare coi familiari. Essendo molto nervoso Dukakis insultò violentemente le autorità ceche. Ciò fece arrabbiare i compagni di Mosca che dichiararono che nei rapporti tra America e Urss niente sarebbe stato più come prima. Tornato a Washington, mentre mezzo governo si era già dimesso, Dukakis tentò la via del dialogo. Si recò in Idaho per discutere direttamente con lo zoccolo duro della protesta: i contadini di quello stato. Nonostante tutto il ricevimento fu a base di pomodori in faccia al presidente che, assediato da alcuni indemoniati con dei forconi, dovette tornare sull’Air Force One. Fu in aereo che seppe che i dati del ministero del commercio davano la disoccupazione al 35% a causa della sua politica economica. Inutile dire che di fronte a queste figure i mercati finanziari calarono anche del 10% al giorno. Il leader repubblicano al senato affermò:”Siamo in una crisi simile a quella del 1929, e ricordatevi che da quella crisi si uscì con due strade: da una parte il new deal, dall’altra il nazismo. Stiamo attenti”. L’Unione sovietica sferrò subito un attacco missilistico in Montana, ma Dukakis non ebbe la forza di rispondere colpo su colpo puntando sul dialogo. Ma era troppo tardi per il dialogo, ripetevano i dirigenti moscoviti. I contadini democratici e repubblicani e tutte le categorie si combattevano fra di loro. “E’ una nuova guerra civile” disse qualcuno “ma non abbiamo un Lincoln!”. L’Urss, sfruttando l’alleato cubano e simpatizzanti in Nicaragua invase l’America, conquistando ben 14 stati della costa est. Giunta a Washington l’armata rossa fece solo una richiesta al presidente: “Si converta al comunismo”. Dukakis si disse d’accordo perché si considerava “rappresentante dell’area di sinistra del Pd: sono un Kucinichiano della prima ora!”, e ciò peggiorò la situazione. I 50 stati si divisero e l’unione cessò di esistere. L’unione sovietica avanzava in quel periodo con la propria sfera d’influenza anche in America. Si concluse così il periodo chiamato “guerra fredda” con la vittoria del fronte sovietico.