Le intenzioni di Letta e quelle di Alfano
Il sorprendente e “travagliato” voto di fiducia dato da tutto il PdL, per bocca di Silvio Berlusconi, al governo Letta per molti commentatori politici è stato come “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino: qualcosa dalla difficile interpretazione.
Presumibilmente la dinamica ha seguito questo schema: forse per la prima volta della sua vita politica a Berlusconi conveniva prendere una decisione improntata alla razionalità. Rassegnarsi alla sua decadenza ma mantenere in vita l’esecutivo Letta, per tutelare se stesso e le sue aziende anche in sede esecutiva attraverso i suoi ministri.
Mal consigliato ha deciso (con un metodo che ha portato ad una ribellione nel partito) di fare l’esatto opposto. A questo punto i “governisti”, capitanati da Alfano, hanno minacciato una scissione. Appena Berlusconi ha capito che la scissione era un rischio serio, e che avrebbe comunque determinato il mantenimento in vita del governo Letta, è tornato sui suoi passi.
In questo modo però, pur avendo compiuto in linea teorica la scelta più saggia, ha compromesso la sua reputazione all’interno del partito apparendo per la prima volta quello che subisce una decisione dalla portata così dirimente. Subito dopo il voto di fiducia si è aperto all’interno del centrodestra un dibattito sul se costituire o no dei gruppi autonomi in Parlamento guidati dalle cosiddette “colombe”.
Manovra che da quel che si è capito ha un grande sostenitore in Enrico Letta che in questo modo vuole formalizzare, anche dal punto di vista dei gruppi parlamentari, come la maggioranza politica che regge il suo governo sia diversa da quella numerica in entrambi i rami del Parlamento (l’allontanamento di Michaela Biancofiore, amazzone berlusconiana, dal sottosegretariato alla funzione pubblica conferma questa dinamica).
Il problema però, come ha fatto notare il presidente dei senatori PdL Renato Schifani un minuto dopo il voto di fiducia a Palazzo Madama, è che a seguito del voto compatto a favore di Letta viene meno il motivo “formale” per cui una parte del partito dovrebbe uscire. Venendo meno il casus belli, viene anche meno la motivazione e la scelta di formare una nuova forza politica.
Un tema che sembra aver capito per primo Angelino Alfano: un centrodestra interno al governo Letta e senza la leadership berlusconiana non solo rischierebbe seriamente di fare la fine di Fli (considerando tra l’altro che Berlusconi e i suoi seguaci in questo schema avrebbero la possibilità di fare un’opposizione barricadiera contro “l’oppressione fiscale” del governo delle larghe intese) ma renderebbe impossibile una scalata di Alfano ai vertici della Forza Italia che, dopo la disfatta personale di Berlusconi, sembra quanto mai possibile.
In uno scenario di questo tipo appare forse un’esagerazione la richiesta lettiana di “chiudere subito il ventennio berlusconiano” e di “affidare la leadership del centrodestra ad Alfano”: è come se il capo del governo, forte della vittoria politica ottenuta, si sforzi di delineare scenari di sistema. Prerogative, almeno secondo la più recente prassi, più adatte ad un Capo dello Stato “molto attivo” come Giorgio Napolitano piuttosto che a un capo del governo.
Tanto che lo stesso Alfano ha gentilmente chiesto a Letta di non intromettersi negli affari dei partiti altrui e che l’essere Presidente del Consiglio non significa essere un dominus del sistema partitico in cui alla fine si danno indicazioni tecniche ai giocatori in campo.
La percezione dunque è che l’intenzione lettiana di favorire una destra del tutto scevra dal berlusconismo, non sia la strada prediletta da gran parte della colombe del Pdl. Che hanno compreso come una rimozione totale di questi ultimi vent’anni, soprattutto dal punto di vista elettorale, rischia di essere la pietra tombale delle loro aspirazioni future.