Il XXI secolo si è aperto come il secolo della paura. Che si tratti di guerra e terrorismo o di semplici delitti di paese, i temi di cronaca nera hanno via via scalato la scena mediatica entrando prepotentemente nelle case e nella mente di persone sempre più smarrite e spaventate.
Politici con pochi scrupoli hanno scelto di fondare la propria carriera vivendo quasi di rendita sul controllo e sulla manipolazione della paura della popolazione e del conseguente bisogno di sicurezza e protezione, ergendosi di volta in volta a paladini della sicurezza, a guardiani dei confini nazionali, a moralizzatori dei costumi e della società… e così facendo avviando percorsi di evoluzione sociale spesso sorprendenti e inaspettati persino da coloro che li hanno messi in moto.
Ben oltre la pura attualità politica un aspetto sicuramente degno di attenzione è il rapporto che i media stanno via via instaurando con il crimine, in particolare con il crimine violento e in un ultima istanza con l’omicidio.
Impazzano ormai da anni – e sono sempre al top degli ascolti – serie televisive incentrate su squadre investigative ipertecnologizzate, in grado, con gli strumenti della scienza e della tecnica, di venire a capo con successo di qualsiasi omicidio. I laboratori di serie come CSI o NCIS sono diventati simboli quasi totemici del nostro bisogno di sicurezza, luoghi virtuali in cui riporre fiducia per esorcizzare le nostre paure.
Nelle ricostruzioni di Bruno Vespa così come nei dialoghi dei profiler di Criminal Minds emerge il bisogno compulsivo di spiegare e comprendere l’omicidio e l’omicida, un bisogno che, di volta in volta, acuisce in forma paranoica i nostri sospetti verso determinate persone, atteggiamenti o comportamenti, o piuttosto ci adagia nella convinzione che l’assassino, il “mostro”, è diverso, è deviato, che una simile esperienza non potrà capitare a noi, oppure ancora ci apre una finestra su moventi e motivazioni allo scopo di purificare le nostre piccole atrocità quotidiane. Condannare, perdonare, o semplicemente comprendere.
[ad]Quali sono tuttavia le conseguenze di un simile atteggiamento? Se i tentativi di Vespa appaiono patetici e al limite del ridicolo – come dimenticare ai tempi del delitto di Avetrana la battuta ricorrente, “A quando il plastico da Vespa?” – persino le costruzioni più riuscite non riescono e non vogliono essere socialmente e umanamente soddisfacenti.
Da un punto di vista prettamente politico scenari ambigui come appunto i programmi da prima serata sono il giusto alimento per le masse: provano a chiarire chiacchierando intorno al nulla, tentano di rassicurare senza eliminare l’inquietudine, proiettano l’immagine di una società in procinto di svelare la formula magica del crimine lasciando invariabilmente, al momento di spegnere la televisione, solo informazioni frammentarie, confuse e condizionate a loro volta dagli umori dell’opinione pubblica.
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[ad]La ricerca del movente del delitto è da sempre stato degli elementi più importanti di un’indagine e di un processo, vista la rilevanza penale riconosciuta alle cause che hanno portato all’atto omicida. Dal punto di vista antropologico la ricerca del movente serve piuttosto a inquadrare l’azione delittuosa in un contesto spiegabile con le consuete regole della convivenza civile, ad applicare il ragionamento dell’assassino in un sistema di valori conoscibile e comprensibile, pure se deviato e non condivisibile. Apprezzabile da questo punto di vista il Darkly Dreaming Dexter di Lindsay e la serie TV che ne è stata derivata.
Eppure la ricerca del movente si è dimostrata spesso incapace di spiegare l’atto dell’omicidio, circoscrivendo l’imprevedibile, l’inconoscibile e sostanzialmente l’inaccettabile per l’uomo cosiddetto civile al concetto di raptus ed analoghi (lettura imprescindibile sul tema sono gli atti del convegno Il raptus, un’assenza che ne nasconde molte altre del 9 giugno 2001). Diventa quindi sempre più rilevante il movente del movente, del corredo genetico, ambientale e comportamentale che ha scatenato le cause non già dell’omicidio, quanto della predisposizione all’omicidio. Una macabra derivazione, di Lombroso, a cui si è arrivati dopo aver constatato l’incapacità, fermandosi al livello precedente, di comprendere i meccanismi secondo cui si muovono le menti criminali e derivante da una ricerca forsennata di sezionare e classificare le sfumature del Male, quasi fosse possibile istituire regole – biologiche o comportamentali – seguendo le quali vivremmo in un mondo perfetto di pace e concordia.
Se dalla televisione modi meno scientifici e forse più romantici di affrontare l’omicidio e la morte sono ormai scomparsi, se nei libri prevale ormai la corrente mainstream relegando a pochi appassionati – magari di poesia – visioni alternative, la musica continua invece a riproporre, in speciale modo nel genere inestinguibile delle murder ballads, un approccio differente da quello televisivo ma per certi aspetti altrettanto ficcante.
Tutti i grandi della musica cantautorale, ad un certo punto della loro carriera, hanno sentito il bisogno ad un certo punto di confrontarsi con il tema del delitto: Dylan, Hendrix, Gabriel, Young, Springsteen, Cave, Cash, Lanegan sono solo alcuni dei nomi più famosi che hanno legato la loro carriera anche a questi cupi viaggi negli abissi dell’animo umano.
Attraverso la musica, l’umanità ha sempre sentito il bisogno di raccontare la morte, accanto ad altri temi eterni come l’amore o la protesta sociale, ed in particolare la morte violenta. Assassini reali, le cui imprese sono state documentate dalla cronaca del tempo come il killer clown John Wayne Gacy Junior degli anni ’70, indietro fino al taxista Lee Shelton della fine del XIX secolo per risalire ai tempi della Guerra di Secessione con il veterano Thomas Dula, sono diventati protagonisti dapprima di ballate tradizionali e popolari, per poi essere portati all’attenzione del grande pubblico dal crooner di turno.
Proprio in questa tipologia di murder ballad, quelle tratte dai ritagli di cronaca nera, si può affrontare in maniera più completa il paragone con l’approccio televisivo.
He’d kill ten thousand people
With a sleight of his hand
Running far, running fast to the dead
He took off all their clothes for them
He put a cloth on their lips
Quiet hands, quiet kiss on the mouth1
And in my best behavior
I am really just like him
Look beneath the floor boards
For the secrets I have hid1
“God bless your children and I’ll take care of your wife
You stole my John B. now I’m bound to take your life.”
All about that John B. Stetson hat2
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[ad]Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la musica non risparmia molto all’ascoltatore: lamurder ballad pare invece proprio costruita secondo un canone ben preciso – pur con doverose variazioni sul tema – che consente la massimizzazione dell’esperienza percettiva nel fruitore.
Il racconto è spesso fatto in prima persona da parte dell’assassino, e raramente l’atto stesso dell’omicidio viene omesso dalla narrazione diretta; a seconda del messaggio che l’autore intende inviare, sono contenute le fasi di avvicinamento e adescamento della vittima, quanto piuttosto i momenti immediatamente successivi all’uccisione. A volte, in un richiamo alle favole dell’antichità classica, la morale dell’autore chiude la canzone.
La scelta della prima persona consente l’esplorazione dell’animo dell’assassino, ed in questo la scelta non appare difforme nel suo scopo ultimo da quella dei vari plastici di Porta a Porta. Le azioni e sentimenti dell’omicida vengono descritti in maniera esplicita, così come lo sono, nei momenti successivi alla morte della vittima, le reazioni di appagamento, colpa, rimpianto, paura. Una discesa infernale nella psicologia criminale che nulla ha da invidiare a quelle dei profiler delle serie televisive.
Ma la musica canta di temi universali, ed il genere delle murder ballad ha saputo crescere ben oltre le pagine di cronaca per coronare l’ambizione di cantare l’essenza del delitto, creando scenari mirati con finalità quasi didascaliche, catturando l’ascoltatore con costruzioni artefatte volte a mettere in evidenza quella che Hannah Arendt definiva la banalità del male.
Corpi bruciati (Westfall, Okkervil River, 2002), strangolamenti, coltellate, fucilate (Omie Wise, Banks Of The Ohio, Little Sadie, riconducibili al filone della musica popolare e portate al successo da più interpreti), le murder ballad espongono un campionario di brutalità senza alcuna censura o addolcimento: la crudezza della narrazione anzi non fa che acuire il senso di straniamento dell’ascoltatore.
When I killed her it was so easy
That I wanted to kill her again
I got down on both of my knees
She ain’t coming back again3
It’s in my hair
There’s blood in the sink
I can’t calm down, I can’t think
I keep calling
There’s blood in the trunk
I can’t calm down
Pick up!4
I’ve been waiting for this
I have been waiting for this
All you people in TV land
I will wake up your empty shells
Peak-time viewing blown in a flash
As I burn into your memory cells
‘Cos I’m alive5
Non si può infine non citare quello che forse è il maestro indiscusso del genere, l’australiano Nick Cave, che alle murder ballad ha dedicato anche un concept album. La sua opera simbolo è indubbiamente Where the wild roses grow, canzone che riassume ed esalta tutti i tratti salienti delle canzoni dedicate alla morte e all’omicidio: lo sfondo passionale del delitto, la crudezza del movente (And I kissed her goodbye, said: “All beauty must die”) raccontato dalla bocca dell’omicidio, le lente strofe di avvicinamento al momento culminante della morte della donna amata. La canzone si snoda come duetto, raccontando attraverso la voce di Cave il punto di vista dell’assassino e tramite Kylie Minogue quello della vittima; il video stesso non fa che enfatizzare ogni scena e contribuire al messaggio ultimo della canzone, a partire dalle mani insanguinate di Cave nella scena di apertura e dal serpente d’acqua che striscia sul “cadavere” della Minogue, simbolo di profanazione per di più dalla chiara allusione sessuale.
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[ad]Questa breve carrellata sul vastissimo mondo delle murder ballad evidenzia ad un tempo le analogie con la presentazione televisiva degli omicidi, validando le pretese di poter confrontare i due mezzi espressivi, e le differenze che invece consentono di poter analizzare l’evoluzione dell’approccio al tema.
Tanto nella forma canzone quanto nello spettacolo televisivo di prima serata domina l’aspetto scenografico, enfatizzato in un caso da testi volutamente crudi e provocatori e costruzioni musicali al servizio del messaggio veicolato dal testo, e nell’altro tramite i dibattiti e i gadget del caso come i famigerati plastici di Bruno Vespa. Considerando inoltre il genere delle murder ballad come un – pur inorganico – unico insieme, non si può non notare un aspetto quasi didascalico nel raccontare pressoché ogni tipologia di omicidio concepibile e concepita dalla mente umana; l’analogia con la varietà di casi polizieschi delle serie TV è evidente, sia pure nella differenza di intenti che caratterizza i due generi espressivi. Una serie TV nasce infatti per intrattenere, ed una canzone deriva invece da un’urgenza espressiva, eppure da un lato la continua ricerca di situazioni nuove e inriganti per non perdere audience e dall’altro i continui input forniti da fatti di cronaca e in generale dall’ispirazione degli autori hanno nel tempo prodotto ampie e necessariamente similari collezioni di situazioni e personaggi legati al mondo degli omicidi.
Naturalmente non mancano le differenze legate al mezzo espressivo. L’immedesimazione offerta da una narrazione in prima persona dal punto di vista dell’assassino non ha eguali nel mondo televisivo, in cui l’elemento visuale consente sempre di separare l’immagine del narratore/protagonista da quella dell’antagonista. Nella visione di una serie TV i gesti dell’assassino possono essere affrontati, capiti, giudicati, ma sono compiuti da un elemento “altro” rispetto al narratore, e quindi l’aspetto interpretativo assume massima visibilità. Nella canzone questo fattore è invece sfumato fino a scomparire; eventi e sensazioni riportate dai cantautori sono interpretazioni dei reali sentimenti di unkiller al pari di quanto appare in televisione, ma la privazione dell’elemento visivo unita alla narrazione in prima persona costruisce uno scenario emotivamente credibile, di grande impatto nello spettatore.
Altrettanto importante è l’assenza dalla musica di aspetti consolatori: nelle puntate delle serie televisive il colpevole viene invariabilmente catturato o messo nell’impossibilità di nuocere alla società, mentre nei salotti televisivi impazzano saluti alle vittime come se semplicemente fossero altrove, finalmente felici e in pace. Nella musica non si vede nulla di tutto questo, non sappiamo – non dalla canzone – la fine che farà l’assassino, veniamo a volte a conoscenza solo del suo tormento interiore e dei sentimenti che via via lo animano dopo aver ucciso la vittima di turno. La limitatezza temporale della canzone – pochi minuti – porta l’autore ad eliminare le parti meno pregne di significato, e non c’è quindi spazio per l’arrivo della cavalleria, per la cattura del colpevole ed il ristabilimento dell’ordine sociale. Solo per il dramma psicologico dell’omicidio.
Ma è proprio nei temi trattati che si colgono le maggiori differenze tra musica e televisione, che vengono evidenziate le differenti finalità dei due mezzi espressivi. La canzone tenta di colpire l’ascoltatore con la brutalità del delitto o la banalità del movente, ma non pretende di arrivare a comprendere il gesto dell’omicidio; narra la morte violenta come fosse parte dell’ordine naturale della vita allo scopo di suscitare emozioni forti, di rigetto, di annichilimento, in chi ascolta. Non pretende di assimilare l’omicida o di comprenderne gli istinti. Cantare l’omicidio come fosse normale serve solo a farne risaltare l’anormalità.
Programmi strutturati alla maniera di Porta a Porta sortiscono l’effetto inverso. Partendo da unaclaque e da un parterre di ospiti addomesticati a celebrare l’omicidio come fosse una messa, ciascuno con i propri paramenti e la propria parte da recitare, tentano di sviscerarne l’essenza arrivando tuttavia solo a banalizzarla. L’esibizione continua e spudorata in diretta TV di accuse, difese, moventi e perizie arriva a intorpidire quei sentimenti di allarme e ripudio che al contrario le parole delle canzoni innalzano ed esaltano, lasciando il telespettatore solo a interrogarsi su questioni di bassa lega facendogli perdere di vista ciò che è realmente importante.
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[ad]Si potrebbe ritenere che questa discrasia di obiettivi tra musica e televisione sia insita nel mezzo di comunicazione stesso: la musica è giusto che crei dei manifesti, ma il compito di un programma di approfondimento dovrebbe essere proprio quello di andare al di là dell’immagine e capire i retroscena anche degli eventi più terribili.
Se i risultati sono questi, è però evidente che vi debba essere un problema. Ma poiché non sarebbe per nulla auspicabile un mondo senza profiler o criminologi, che tanti delitti hanno risolto e tanti di più con le loro abilità e le loro specializzazioni riescono a prevenirne, il problema deve risiedere proprio nella modalità di esposizione mediatica. Ed in particolare, nella continua ricorsa all’audience che si realizza nella messa in mostra del privato, nella confusione di visioni frammentarie che lasciano allo spettatore un quadro incompleto e confuso, nei toni forzatamente alti di dibattiti tra persone poco competenti, nelle scenografie ad effetto. Una trasmissione di psicologia criminale di stile minimalista alla guisa di Report sicuramente farebbe molta più chiarezza nella mente dei cittadini rispetto ad un qualsiasi Porta a Porta, ma non avrebbe lo stesso successo e nemmeno la medesima sponsorizzazione dal mondo della politica.
Perché molte, troppe responsabilità, dirette e indirette, ricadono proprio sulla politica, da scelte economiche che costringono la TV pubblica ad un progressivo abbassamento del livello delle trasmissioni per ritagliarsi audience, a precisi indirizzi politici che vogliono una cittadinanza confusa, addormentata ma soprattutto spaventata. Che abbia da discutere il giorno dopo su temi di second’ordine ma che non sia sicura nel vivere la propria vita.
E allora, per ricordare cosa sia la morte, per rendersi conto di quanto futili possano essere i motivi per uccidere, per ricordarci cosa è giusto e sbagliato, meglio accendere un computer, aprire YouTube e lasciarsi catturare dalla voce cavernosa di Nick Cave nel suo valzer mortale con Kylie Minogue…
2: Bob Dylan – Stack-A-Lee – 1993
3: Okkervil River – Westfall – 2002
4: Wilco – Bull Black Nova – 2009
5: Peter Gabriel – Family Snapshot – 1980