L’inefficienza dei concorsi universitari 2: la “corruzione accademica” in prospettiva globale
Quasi in contemporanea con diversi episodi di indagine su irregolarità nelle procedure concorsuali per alcune posizioni accademiche, da quello messinese a quello che, poco dopo, ha visto coinvolti anche alcuni dei “saggi” impegnati nella definizione di un percorso parlamentare per le riforme istituzionali, Transparency International ha pubblicato uno dei suoi consueti report sui fenomeni di corruzione nel mondo dell’istruzione. Le parti di questo documento relative all’istruzione superiore e universitaria mi danno la possibilità di dar seguito al mio intervento sull’inefficienza dei concorsi universitari in prospettiva storica con una riflessione in cui certi fenomeni possono essere considerati in una prospettiva globale.
In primo luogo, è interessante notare che un capitolo espressamente dedicato ai casi di corruzione (intesa nel suo senso più ampio di sabotaggio dei valori che le pratiche di selezione e di giudizio devono esprimere) nello sviluppo della carriera accademica è stato affidato al giovane politologo nigeriano J. Shola Omotola. La scelta non è casuale: si comprende infatti dall’esposizione che i casi più numerosi, di maggior impatto e più significativi di aggiramento delle regole fondate sul premio alla competenza e alla qualità del lavoro nelle assunzioni e nelle progressioni di carriera si verificano nei paesi in via di sviluppo africani, asiatici ed est-europei, caratterizzati da una comunità scientifica più ristretta, meno sottoposta a controlli amministrativi e quindi più permeabile a comportamenti reprensibili. Tuttavia, il primo caso nazionale citato dall’autore in riferimento al “familismo” e alle pratiche localistiche incoraggiate dalla decentralizzazione amministrativa soprattutto “in regioni in cui la cultura civica è meno diffusa” è quello italiano.
Il resto dello studio dimostra che questa scelta è dovuta essenzialmente al fatto che le pubblicazioni hanno dato ampio risalto all’aneddotica nostrana e ai tentativi di verificarla con sondaggi metodologicamente inaffidabili quali il conteggio delle omonimie nei differenti atenei, e che su scala globale le realtà dove la scarsa pulizia morale dei docenti fa correre i maggiori rischi di tracollo del sistema accademico sono ben altri. Il caso italiano, tuttavia, non è stato inserito a sproposito in questo panorama d’insieme, visto che i risultati della comparazione e le possibili soluzioni proposte possono dirci molto anche dello specifico caso del Bel paese. In primo luogo, scrive Omotola,
in many higher education management systems, there is no lack of institutional frameworks for transparency and accountability in the recruitment and promotion process. In most cases, these frameworks are codified in laws and institutional structures such es the committee systems for standard control and quality assurance. The problem, however, is that such institutional norms and values can be circumvented, either subtly or overtly, by those who navigate the system.
Insomma l’istituzione di forme di controllo “poliziesco”, non importa quanto attive ed invadenti, non comporterà automaticamente un miglioramento qualitativo delle pratiche di selezione e di reclutamento, ma può paradossalmente finire per creare per esse un humus ancora più efficace. L’effettiva responsabilità delle assunzioni finirà infatti nelle mani di poche persone, e dipenderà alla pulizia delle loro relazioni reciproche e della loro capacità di resistere alle istanze del personale più interessato a fare pressioni sui concorsi, pressioni anche non del tutto illegittime, come nel caso del desiderio di assicurare continuità a gruppi di lavoro già rodati favorendo la ricollocazione di insiders nella stessa istituzione.
Sembra quindi andare in direzione opposta a un miglioramento della situazione la scelta italiana, esplicitata nella riforma del 2010, di ridurre il numero dei responsabili delle valutazioni e della selezione degli idonei alle promozioni, selezionandoli attraverso pratiche fondate sulla commistione di sorteggio e nomina dall’alto che escludono una comunità scientifica bisognosa, invece, di essere coinvolta nelle forme più ampie e all’insegna della maggior condivisione possibile. Allo stesso modo risulta discutibile la scelta invalsa negli ultimi anni di modificare radicalmente, con una certa frequenza e attraverso processi normativi dispendiosi e prolungati, le pratiche selettive, col rischio di creare “ambiguità e instabilità nelle norme” in cui cresce la possibilità di approfittare a fini illegittimi di vuoti normativi e “interstizi” di inefficacia nelle leggi.
Più efficaci appaiono invece alcune delle soluzioni proposte dall’autore, pur con il beneficio d’inventario dettato dalla necessità di maggiori ricerche sul campo, visto che quelle disponibili sono ancora poco affidabili e per lo più legate alla semplice conferma del luogo comune. In particolare, risulta necessario lo sforzo per la creazione di standard assunzione comuni sul piano nazionale e, soprattutto, comparabili sul piano internazionale, al fine di accompagnare la libertà delle singole sedi e delle comunità scientifiche nel loro complesso di promuovere le loro priorità sul piano organizzativo e i propri criteri di giudizio delle competenze sul piano scientifico con un adeguato livello di responsabilità di fronte a verifiche serie del livello dei servizi didattici e scientifici offerti.
Da questa strada, però, l’Italia pare allontanarsi, per seguire invece il sentiero ormai irrimediabilmente screditato della creazione di sistemi concorsuali sempre più arzigogolati e farraginosi nella speranza che i corruttori smettano di corrompere perché incapaci di capirne il funzionamento. Ed è quindi anche a causa di una legislazione universitaria schizofrenica, che ha consolidato gli spazi di comportamento poco pulito invece di attaccarli e ridurli, se l’Italia si trova a vivere uno scenario di permeabilità alla corruzione, con tutte le evidenti conseguenze sulla crisi di credibilità scientifica delle istituzioni accademiche colpite e sul calo dell’efficienza di un corpo di studiosi e ricercatori che ricevono posizioni di privilegio professionale e socio-economico sulla base della contiguità con i selettori più influenti e non dei loro risultati.
Peraltro questa situazione che i ministeri che si sono succeduti hanno lasciato colpevolmente incancrenire rischia di aggravarsi ulteriormente, se al quadro si aggiunge un altro problema globale che in Italia si percepisce con particolare asprezza: l’effetto della generale restrizione delle risorse pubbliche stanziate a sostegno della ricerca e della formazione superiore a causa della crisi economica. Come è stato efficacemente riassunto anche dalla presentazione di David Champan pubblicata su University World News, la relazione di Transparency International insiste sull’effetto aggravante che la restrizione delle risorse garantite all’attività scientifica esercita sulla diffusione delle tendenze ad “abusare dei poteri del proprio ufficio per ottenere guadagni personali” nel mondo universitario.
Con sempre maggiore frequenza “per compensare […] l’erosione dei salari e delle condizioni di lavoro”
some instructional staff turn to inappropriate behaviour on campus, for example, selling grades or ghost writing papers, or they seek supplemental employment opportunities off campus that draw them away from their university responsibilities.
Inoltre, la necessità di ottenere fondi integrativi “vendendo” i propri servizi alle aziende e nel mondo privato
can open the door to temptation, to the extent that some faculty members respond to those pressures by taking inappropriate shortcuts in their work.
Poi, di fronte alla necessità di garantire almeno l’apparenza dell’eccellenza e la soddisfazione almeno sulla carta di certi standard qualitativi che investe le singole sedi universitarie in lotta per la loro sopravvivenza economica, i vertici locali sono spesso condotti a rendere meno stretti e certi i controlli sul comportamento del loro dipendenti, fino ad arrivare a una
variation in what is regarded as acceptable practice, less rigorous oversight of faculty and staff behaviour, and greater opportunity to bend rules in an effort to burnish the organisational image,
o addirittura al tentativo di corruzione diretta o indiretta sulle agenzie che definiscono i ranking internazionali e sulle edizioni delle principali riviste peer-reviewed, anch’esse tutt’altro che impermeabili vista la loro natura di aziende private.
Dietro queste parole, un conoscitore del mondo accademico del nostro paese può trovare molto di familiare: le conseguenze dell’“autonomia” sull’alleggerimento di alcuni programmi di studio bisognosi di ampi flussi di alunni per mantenere in piedi cattedre a rischio e sullo svolgimento di pratiche concorsuali attribuite da oltre un decennio a una sorta di “autogestione” dei poteri accademici locali; la tendenza, che in molti casi a inizio carriera diventa una vera e propria necessità per sbarcare il lunario, a rendersi complici di iniziative di istruzione accademica privata di dubbia qualità scientifica e anche di dubbia legittimità, come molte delle università telematiche che da circa un decennio hanno trovato ampio spazio e una legislazione favorevole; i casi sempre più numerosi di “pasticci” nelle liste bibliografiche e nelle presentazioni di prodotti alle valutazioni dovuti a sviste che ricordano da vicino tentativi di modifica fraudolenta della propria posizione, e altro ancora.
Anche ragionando sul piano specifico della gestione economica, insomma, in Italia ci troviamo di fronte a un contesto in cui le profonde e frequenti azioni di riforma legislativa e amministrativa del comparto universitario, spesso presentate esplicitamente come tentativi di combattere lo strapotere dei “baroni” e accompagnate anche da buon consenso nell’opinione pubblica proprio grazie a questo espediente retorico, si dimostrano senza mezzi termini peggiorative proprio per la possibilità di lasciare impunite e finanche di generare occasioni di corruzione, irregolarità e trasgressione delle più elementari norme di condotta etica. Sembra quindi inevitabile concludere che il sistema istituzionale e di gestione amministrativa che attualmente regge l’università italiana o è stato elaborato e istituito per soddisfare necessità di natura essenzialmente contabile e per non pestare i piedi sbagliati tra gli interessi costituiti nel mondo accademico, o è il frutto di una scrittura normativa sciatta e sbadata che non ha tenuto alcun conto della concreta situazione pregressa, o entrambe le cose.